La scrittrice campana Valeria Parrella: «Il carcere minorile non dovrebbe esistere per definizione»

«Il carcere minorile non dovrebbe esistere per definizione». Valeria Parrella, incontrata pochi giorni fa al festival della Letteratura di Campi Bisenzio, Firenze, sbarra gli occhi sopra un sorriso altrimenti aperto e naturale con cui contrappunta ogni pensiero ragionato.

La scrittrice campana Valeria Parrella: «Il carcere minorile non dovrebbe esistere per definizione»

A Nisida, isola sull'arcipelago delle isole Flegree, nel golfo di Napoli, Parrella ha metabolizzato un’esperienza indelebile: «Non sai che fatica entrare e uscire dal carcere minorile, avendo un figlio della stessa età. E trovandosi di fronte a ragazzi che chiaramente non hanno colpa. Perché se c’è un minore colpevole, allora c’è un adulto colpevole dall’altra parte», sostiene la scrittrice napoletana, approdata in libreria con i racconti Piccoli miracoli e altri tradimenti (Feltrinelli, 112 pagine, euro 15).

Dietro le sbarre, qualcuno si salva?

«A volte succede. Il carcere può salvare i ragazzi, di sicuro li educa. Dentro trovano tutto ciò che fuori non avevano potuto avere: sacerdoti, educatori, insegnanti volontari. Tuttavia, se poi ritornano nello stesso quartiere che ha partorito l’errore, solo alcuni capiscono e cambiano atteggiamento. Molto spesso sono i preti che fanno da raccordo: è difficile uscire dal carcere, per di più minorile. E proprio i sacerdoti sono figure determinanti: hanno un centro di aggregazione nel quartiere, oppure garantiscono per i ragazzi di Nisida, trovano magari la casa famiglia che li accoglie».

A Nisida, cosa si imprime nella memoria di chi fa volontariato?

«Le ragazze madri. Sono in carcere, ma avrebbero potuto tradurre dal greco in classe con le loro coetanee. Quando sono entrata la prima volta, sapevo cosa avrei trovato perché nel carcere per adulti c’ero già stata. Ma a Nisida è l’ora in cui bisogna andare a dormire che fa impressione. Non c’è la mamma, la sorellina, la stanzetta di casa. Dentro e fuori dal carcere dei minori, da adulto libero, impari solamente un dato di fatto: non puoi cambiare niente, anche se quella struttura non dovrebbe proprio esistere. Ma quello che ti regalano loro è molto più di ciò che tu offri».

Girando pagina, le donne leggono più degli uomini e sono una voce sempre più significativa in letteratura…

«Le statistiche confermano la maggioranza netta di lettrici femmine. La speranza di scrittori e editori è che le donne lascino in giro, nei comodini, nei bagni i libri e che a questo punto gli uomini se li vadano a pescare. Le donne parlano, leggono, scrivono: sono fortissime. Anche al Festival della letteratura Working Class di Campi Bisenzio la voce delle donne è stata centrale. In particolare Tove Ditlevsen, danese, scomparsa nel 1976 che invito a leggere. Uno dei grandi temi è la fabbrica, ma l’altro altrettanto potente si dimostra il corpo delle donne. Crescono all’ombra della fabbrica, anche per come si muovono e per il modo in cui il loro corpo cambia rispetto al lavoro».

A Nord Est, si cristallizzano gli stereotipi su Napoli. Ma qual è veramente l’identità che anima la città?

«Non so proprio cosa vedete voi di Napoli. Pino Daniele cantava Napule è mille colori e non si tratta di una metafora qualunque, perché Napoli è un mondo. Alto e basso, facile e difficile, grazia e disgrazia, cultura e camorra: c’è davvero tutto in città. Napoli in qualche modo si dimostra accogliente, non ti lascia mai sola. In un’intervista Lea Vergine raccontava la sua infanzia a Napoli: “Certo, era un gran casino, ma noi ebrei eravamo al sicuro”. Le famiglie come la sua non avevano mai paura, al contrario di altre città in Europa. Del resto, è semplice: cosa vuoi che importi a un napoletano se sei ebreo o qualunque altra cosa?»

(foto Il Bo live)

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