Livio Pepino: “Sul 41 bis si combatte una guerra di religione”

Tra i promotori dell’appello per Cospito, l’ex magistrato punta il dito su un dibattito “avulso” dai problemi reali e auspica un cambio di rotta nell’applicazione del carcere duro

Livio Pepino: “Sul 41 bis si combatte una guerra di religione”

“La questione 41bis? È diventata una guerra di religione, con un dibattito avulso dai problemi reali”. Livio Pepino già magistrato, un passato nel Csm e come presidente di Magistratura democratica, è perentorio. Quando si parla di carcere duro e si vuole andare al cuore della questione la sua esperienza detta legge. Pepino attualmente dirige le Edizioni Gruppo Abele ed è tra i promotori dell’appello per la revoca del 41bis all’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso. Un appello sottoscritto da giuristi, magistrati e intellettuali italiani e rinvolto “all’Amministrazione penitenziaria, al ministro della Giustizia e al governo perché escano dall’indifferenza in cui si sono attestati in questi mesi nei confronti della protesta di Cospito e facciano un gesto di umanità e di coraggio”.

Direttore, facciamo chiarezza: che cos’è il 41 bis e in cosa consiste il carcere duro?
L’articolo 41 bis è una norma dell’ordinamento penitenziario che prevede, per i condannati (o imputati) per delitti di mafia e di terrorismo che non abbiano troncato i rapporti con le organizzazioni di appartenenza, forti limitazioni di movimento nei rapporti interni ed esterni e nella fruizione di diritti e libertà. La finalità è quella di impedire ai boss mafiosi o a figure apicali del terrorismo di continuare a dirigere dal carcere le associazioni di riferimento. Per questo la legge prevede che siano ristretti in istituti appositi e sistemati in celle singole, che non possano avere contatti con altri detenuti della stessa o di altre organizzazioni criminose né accedere a spazi comuni, che godano dell’ora d’aria in gruppi non superiori a quattro e per non più di due ore al giorno, che possano usufruire di un solo colloquio al mese videoregistrato, da svolgersi in locali attrezzati per impedire il passaggio di oggetti ed esclusivamente con familiari o conviventi, che siano soggetti a censura della posta sia in entrata che in uscita e così via. Alle restrizioni legislative si aggiungono quelle previste da circolari ministeriali o da disposizioni della direzione del carcere, spesso molto invasive, che toccano tutte le attività della vita quotidiana stabilendo le limitazioni più diverse a cominciare dalla possibilità di tenere con sé fotografie dei familiari, libri, giornali, computer, apparecchi radio e via elencando a dismisura. Questa infinità di limiti e divieti ha, negli anni, trasformato il 41 bis, nato come strumento temporaneo per impedire rapporti criminosi con l’esterno, in regime carcerario differenziato a cui non a caso nel linguaggio comune è stato attribuito il nome di carcere duro”.

In un suo recente intervento ha sostenuto che sul 41 bis e sull’ergastolo ostativo si combatte “un’aspra guerra di religione”. Tra chi e quali sono le rispettive motivazioni?
Ho usato quell’espressione per segnalare che il dibattito è per lo più avulso dai problemi reali, che sono invece molto chiari: le prescrizioni che caratterizzano il 41 bis sono tutte necessarie per impedire i rapporti con le organizzazioni di appartenenza o sono un surplus di punizione, magari per provocare collaborazione con la giustizia? Le persone sottoposte al 41 bis (attualmente 728, cioè più del doppio di quelle in tale condizione negli anni delle stragi) sono davvero tutte pericolosi boss o comprimari? La durata del 41 bis, spesso ultradecennale, è davvero giustificata? Ecco, su questo ci si dovrebbe confrontare laicamente, anziché minimizzare il pericolo della mafia o, al contrario e assai più spesso, accusare strumentalmente di collusioni con mafia e criminalità chi avanza dei dubbi sul funzionamento del sistema.

Da Massimo Cacciari a don Ciotti fino a Gherardo Colombo: l’appello che ha contribuito a lanciare a gennaio per la revoca del 41 bis ad Alfredo Cospito ha raccolto numerose adesioni e riportato in primo piano il tema del carcere duro. Parallelamente alla protesta pacifica, però, sono arrivate reazioni violente che, con tutta evidenza, non fanno bene alla causa. Qual è stato il suo primo pensiero quando ha appreso delle rivendicazioni?
Considerare un tutt’uno la questione dello sciopero della fame di Cospito e delle relative risposte istituzionali e quella delle proteste di piazza e dei gesti di violenza che hanno accompagnato l’evolversi della vicenda è uno sbaglio o, peggio, una strumentalizzazione interessata. Il tema centrale è se condannare a morte Cospito o se salvarne la vita (salvaguardando le esigenze di sicurezza con strumenti diversi dal 41 bis). Se, parallelamente, altri commettono dei reati (spesso, come nel caso dei cortei di solidarietà, enfatizzati in modo abnorme) saranno perseguiti ma non si vede perché ciò debba avere ripercussioni sulla vita o sulla morte di chi è in sciopero della fame”.

Cosa risponde al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che ha dichiarato: “Non so se esiste una saldatura” tra mafiosi e terroristi al carcere duro, “ma se chi subisce il 41 bis se ne lamenta vuol dire che è efficace, che funziona dal punto di vista dell’attività di prevenzione e dello Stato”?.

Rispondo che è un’affermazione inaudita. Chi oggi si lamenta del 41 bis si lamenterebbe ancor più se fosse sottoposto alla tortura sistematica o alla pena di morte. Non è una buona ragione per ritenere questi strumenti opportuni e auspicabili.

Teresa Valiani

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)