Sergio, in aereo dal Brasile a Bologna: “Per me niente tampone né controlli”

Sergio Grossi, ricercatore in Scienze pedagogiche, è tornato da Curitiba il 4 luglio prima che l’Italia chiudesse le frontiere. Racconta il disastro nel sistema sanitario brasiliano e la mancanza di controlli durante il viaggio: “In aereo niente distanze di sicurezza e a Bologna non mi hanno neanche chiesto l’indirizzo di domicilio per controllare che stia in quarantena obbligatoria”

Sergio, in aereo dal Brasile a Bologna: “Per me niente tampone né controlli”

Ho preso uno degli ultimi voli prima che l’Italia chiudesse le frontiere per chi arrivava dal Brasile. Il viaggio è stato delirante: in aereo non erano assolutamente rispettate le distanze di sicurezza, mi hanno misurato la febbre solo una volta arrivato ad Amsterdam, e a Bologna non mi hanno neanche chiesto l’indirizzo per controllare che stessi in quarantena obbligatoria. Se continuiamo così, i casi ricominceranno a crescere prima di quanto pensiamo”. È preoccupato Sergio Grossi, la voce stanca di chi negli ultimi mesi ne ha viste tante. Ricercatore in Scienze dell’educazione, 32 anni, Sergio si trovava in Brasile dai primi di febbraio, quando si era recato a Rio de Janeiro per partecipare ad alcuni concorsi per cattedre universitarie e post-dottorati. È arrivato nel pieno dei festeggiamenti per il carnevale, ma nel giro di poche settimane la situazione è cambiata completamente. 

“A febbraio i casi di polmonite stavano aumentando e molto probabilmente c’erano già persone che stavano morendo per via del covid, solo che ancora non si sapeva – racconta –. Naturalmente le distanze minime di sicurezza non erano rispettate, io stesso ho partecipato ai festeggiamenti per la strada. Quando poi è scoppiato il caso di Codogno in Italia ho iniziato a preoccuparmi: era chiaro che la pandemia prima o poi sarebbe arrivata anche in Sud America, e che sarebbe stata ancora più disastrosa”. Sergio era preoccupato anche per i suoi genitori, che stavano a Bologna, in piena zona rossa. “I miei sono anziani e hanno diverse patologie. Non volevo che uscissero, ma non sapevo come aiutarli dal Brasile: per fortuna ci hanno aiutato i loro vicini migranti, che si sono offerti di andare a far la spesa e portargliela direttamente a casa”.

Nel frattempo, a Rio de Janeiro la situazione peggiorava drasticamente. È stato imposto l’isolamento sociale che comportava diverse restrizioni, ma non si è mai verificata la chiusura totale di tutte le attività e così il virus ha continuato a diffondersi. Ben presto è collassato il sistema di salute pubblica, con liste di attesa di centinaia di persone per la terapia intensiva, scarsità di macchinari come i respiratori polmonari, pochissimi tamponi e mancanza di mascherine e gel igienizzante. I gruppi più colpiti sono stati quelli più poveri: i senzatetto, gli afrodiscendenti, i detenuti e gli abitanti delle favelas.

“La verità è che chi ha un’assicurazione privata ha molte più probabilità di sopravvivere – commenta Sergio –. Il sistema sanitario pubblico è sottofinanziato e corrotto: il diritto alla salute non è affatto garantito. Io ho l’asma e in più sto facendo un trattamento preventivo di antibiotici per la tubercolosi, visto che la mia ricerca di dottorato si è svolta nelle carceri. Sono un classico soggetto a rischio: avevo paura a uscire per strada, mi facevo portare la spesa a domicilio, ma anche la casa non era più un luogo sicuro. Si sono verificati assalti, con persone che entravano e ti picchiavano per rubare. Anche questa è una delle conseguenze del coronavirus: i problemi economici si sono aggravati, e questo ha inasprito il conflitto sociale e i livelli di violenza”. 

A fine marzo Sergio ha deciso di trasferirsi a Curitiba, nel sud del Paese, dove la situazione sociale e sanitaria era meno incandescente, aspettando che il numero di contagi diminuisse. Ma l’emergenza ha continuato a peggiorare: a fine giugno i decessi confermati erano quasi 60 mila e i contagi più di 1 milione 300 mila. A fine giugno, allora, ha scelto di rientrare in Italia. “Per prima cosa ho contattato il Consolato, che mi ha risposto che non organizzavano più voli di rimpatrio per gli italiani e che quindi mi dovevo arrangiare, comprando un biglietto di una delle poche compagnie private che ancora avevano tratte. Così ho fatto: il 4 luglio ho preso un volo di una compagnia olandese. Le condizioni erano pessime: in aereo eravamo tutti ammassati, in Brasile non ci hanno mai provato la febbre anche se ho fatto scalo a San Paolo, la capitale mondiale del covid. C’era chi si toglieva la mascherina per mangiare, un delirio”.

Solo dopo 18 ore di viaggio, durante lo scalo ad Amsterdam, a Sergio hanno misurato per la prima (e ultima) volta la temperatura e hanno chiesto i documenti sul suo indirizzo di residenza, ma non i motivi del rientro. A Bologna, poi, nessun controllo: “Non mi hanno chiesto il mio indirizzo di domicilio, non hanno fatto controlli che stessi in quarantena, non mi hanno fatto neanche il tampone. Io ho chiamato più volte la Regione e il numero verde del ministero della Salute, ma mi hanno detto che non mi faranno il test a meno che io non presenti i sintomi. In più, non potendo trascorrere le due settimane di isolamento con i miei genitori, ho chiamato la protezione civile per trovare un posto sicuro: mi hanno proposto di andare a Piacenza in un centro dove chi ha preso il covid trascorre la quarantena. Secondo loro io, asmatico, potrei mai accettare condizioni simili?”.

Oggi Sergio sta trascorrendo la quarantena a casa di un amico che aveva una stanza libera, nella prima periferia di Bologna. Ma la sua mente va sempre al Brasile: “Di notte non riesco a dormire: penso a tutto quello che sta accadendo là e mi sento impotente – conclude –. Ho ricominciato a scrivere poesie. E ogni giorno su Facebook pubblico il bollettino dei contagi del Brasile, per sensibilizzare le persone e spingerle a fare qualcosa: ho anche lanciato la raccolta fondi ‘L'amore ai tempi del covid - madri nella favela’, per sostenere le madri della favela di Rio De Janeiro, che non hanno più neanche il cibo da dare ai loro bambini. Alcune sono infermiere e lavorano negli ospedali in condizioni di massimo rischio, senza neanche le mascherine”.

Alice Facchini

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)