Violenze in carcere, Giostra: “Condannare non basta. E limitarci allo sdegno non basterà ad assolverci”

L’autore della riforma che nel 2016 ridisegnava il volto dell’esecuzione penale interviene sui fatti di Santa Maria Capua Vetere: “Quello che è accaduto non è un caso isolato”. E “quando i riflettori dei media si spegneranno su questa inquietante vicenda, il mondo del carcere tornerà nel buio di quella rimozione sociale in cui la nostra cultura l’ha relegato”

Violenze in carcere, Giostra: “Condannare non basta. E limitarci allo sdegno non basterà ad assolverci”

“Quello di Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato: è l’ultimo di episodi analoghi, alcuni dei quali soltanto accidentalmente sfuggiti all’omertà o all’insabbiamento”. Glauco Giostra va dritto al punto. La realtà del carcere la conosce a fondo e non solo come ordinario di procedura penale alla Sapienza. Sa bene come funzionano certi meccanismi, lui che al sistema carcere aveva provato a mettere le mani seriamente ‘guidando’ una riforma che abbracciava tutta ‘l’istituzione totale’ con il fine primario di restituire dignità a detenuti e operatori, quella stessa dignità che ancora una volta è stata calpestata.
Aveva infatti presieduto la Commissione di riforma, istituita nel 2016 dal ministro Orlando, il cui prodotto venne abbandonato in un cassetto, dopo due anni intensi di lavoro e di ricerca, da un governo che non ebbe la volontà, e probabilmente anche il coraggio, di calendarizzare l’ultimo step.

Ora il professore assiste sconcertato a immagini “che offendono la retina del diritto e dell’umanità. Si tratta di un fenomeno la cui dimensione è ben più rilevante – sottolinea Giostra -, come sa bene chiunque abbia una non prevenuta conoscenza del mondo penitenziario. Ed è proprio questa consapevolezza, verosimilmente, che ha indotto alcune forze politiche a opporsi all’introduzione del reato di tortura prima e ora all’adozione del numero identificativo per la riconoscibilità degli agenti della polizia penitenziaria”.

Dall’altra parte, professore, ci sono tanti agenti e ufficiali di Polizia penitenziaria che indossano la divisa con onore e dedicano la vita a un lavoro tra i più usuranti
“Di sicuro sarebbe ingiusta ogni generalizzazione. Il corpo della Polizia penitenziaria è prevalentemente formato da persone che assolvono il loro difficile e ingrato compito con abnegazione e senso della legalità. Comportamento anzi ancor più meritevole in un contesto in cui il rispetto della dignità delle persone recluse viene da alcuni deriso come imbelle buonismo, quando non come riprovevole connivenza”.

Una mentalità diffusa anche all’esterno delle carceri, con parte dell’opinione pubblica convinta che la durezza della repressione sia un prezzo da pagare per la sicurezza collettiva
“Sì, mentre credo che sia vero proprio il contrario: chi, oltre alla legittima privazione della libertà, ha subìto gratuite sopraffazioni, fisiche e psicologiche, dolorose e umilianti, ne ricaverà solo una sorta di legittimazione a far ancora del male, una volta tornato in libertà. Se persino coloro che dovrebbero rappresentare lo Stato e il diritto ricorrono a ogni forma di angheria per far valere le loro distorte ragioni, quale remora etica dovrebbe trattenere dal ricorrere alla violenza per raggiungere i propri obbiettivi colui che su questa strada si era già incamminato, incontrando lungo la stessa addirittura i tutori della legalità?”.

L’emersione degli episodi di violenza ha suscitato un coro univoco di condanna da più ambienti. Non si rischia però, come già accaduto, che tutto torni alla ‘normalità’ se oltre a condannare non si agisce per intervenire sulle cause?
“Quando i riflettori dei media si spegneranno su questa inquietante vicenda, il mondo del carcere tornerà nel buio di quella rimozione sociale in cui la nostra cultura l’ha relegato. Un mondo lontano dall’occhio e dall’interesse pubblico, un mondo in cui, non vogliamo sapere con quali mezzi, uomini pagati poco e poco considerati hanno il compito di segregare soggetti che si sono resi responsabili di gravi reati per tenerli lontani il più possibile dalla società onesta. Il carcere come infetto angiporto del consesso civile è il contesto ideale perché alcune menti deboli cerchino un riscatto alla propria frustrazione professionale nella prevaricazione e nel sopruso. Se non cambiano davvero il valore e la funzione sociale del carcere, avremo altri episodi di violenza umiliatrice”.

Più volte, non ultimo con il tentativo di riforma del 2016, lei ha indicato una rotta che però non è stata seguita fino alla fine. Che cosa prevedeva la riforma in merito al corpo della Polizia penitenziaria?
“Gli Stati Generali avevano prodotto una “miniera” culturale di riflessioni e di suggerimenti, in gran parte recepiti nel progetto di riforma penitenziaria. Ma il governo che aveva promosso questo tentativo di profondo cambiamento non ne difese i risultati. Chi arrivò dopo, fece il resto, asportando le parti più importanti. Se fosse stata sposata e realizzata l’idea che il carcere dovrebbe essere il luogo in cui le persone che hanno ferito la società, giustamente private della libertà, sono rispettate e possono godere della possibilità, da meritare con un impegno duraturo e inequivoco, di ricostruire la propria esistenza nel solco della giustizia e della legalità, anche la considerazione collettiva, e, quindi, l’auto-percezione professionale della Polizia penitenziaria sarebbe mutata completamente”.
“Sarebbe stata abbandonata la diffusa, quanto infondata, convinzione – spiega Glauco Giostra - che la Polizia penitenziaria sia una forza dell’ordine di grado inferiore. Si sarebbe invece acquisita la consapevolezza del compito delicatissimo che è chiamata a svolgere. Gli appartenenti alla polizia penitenziaria sono donne e uomini impegnati quotidianamente nella custodia delle persone detenute e nella difesa della sicurezza degli operatori e degli stessi ristretti. Donne e uomini lontani dalle gratificazioni mediatiche che spesso accompagnano le operazioni di successo della Polizia giudiziaria. Donne e uomini che affrontano sacrifici quotidiani in un ambiente doloroso e mortificante, che devono essere in grado di cogliere i primi indizi di rischio e i primi segnali di speranza, che devono riuscire a comprendere culture e storie individuali spesso lontane dalla propria mentalità e dal proprio vissuto.  Non a caso dai lavori degli Stati Generali era emersa la necessità di assicurare al corpo di Polizia penitenziaria una specifica formazione multidisciplinare, per mettere questi operatori in grado di assolvere una così delicata e insostituibile funzione”.

E ora?
“Ora, se trascorso il momento della sacrosanta condanna non interverranno cambiamenti sostanziali, se gli istituti di pena continueranno a essere, salvo, come oggi, lodevolissime eccezioni, contenitori in cui rinchiudere soggetti socialmente infetti, l’agghiacciante attualità che stiamo commentando sarà anche l’attualità di domani. E limitarci ancora allo sdegno non basterà ad assolverci”.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)