Fede e calcio, quella di Ansaldi ci connette alla pace intima
«Mister, Dio mi ha detto che devo giocare». «Strano, a me non ha detto nulla».
Un botta e risposta, divenuto celebre, nello spogliatoio dell’Inter di fine anni Novanta, tra il calciatore nigeriano Taribo West e l’allenatore Marcello Lippi. Non è l’unico momento in cui la fede (che nelle latitudini e longitudini dell’uomo è vissuta con la propria soggettività) si coniuga con il calcio: dalla passionalità esternata dai brasiliani con dedica sotto-maglia o mani rivolte al cielo durante un’esultanza a quei riti che sfociano nella scaramanzia, come l’acquasanta con cui Giovanni Trapattoni si bagnava le mani a inizio partita. Poi trova spazio anche quella più posata, intima, che si fa forza anche di una spontanea condivisione. Come quella di Cristian Ansaldi, 37 anni argentino, neopromosso in Serie A con il Parma. Proprio qualche giorno fa ha raccontato un momento personale difficilissimo, che l’ha fatto vacillare: «Quando ero all’Inter nel 2016, i medici hanno trovato un cancro a mio figlio di cinque anni. È stata una delle cose che ha segnato la mia vita. In quel momento pensi “hai soldi, hai tanti amici, ma a che serve tutto ciò se poi la vita da sola ti dimostra che la cosa più importante che hai, cioè tuo figlio, potrebbe andar via all’improvviso?”. In momenti così difficili uno potrebbe mettere tutto in discussione, io invece sono sempre rimasto connesso alla mia fede. Ho sentito una pace incredibile dentro di me. Puoi fare di tutto, ma tanto l’ultima parola spetta a Dio». Connessione e pace. La testimonianza di Ansaldi ci riavvicina a uno sport che sembra tutto tranne che spazio in cui esternare debolezze e umanità: «Sui miei social condivido passi del Vangelo. Mi sento in relazione con la mia religione. E se posso cerco di aiutare gli altri: nel 2018 ho aperto una biblioteca nella mia vecchia scuola elementare. Volevo dare ai bambini l’opportunità di avere sempre un libro fra le mani. Sono una persona semplice, voglio lasciare qualcosa di positivo».