Chiedere scusa o “per-dono”? Obbligare un bambino o un giovane non serve se non ha preso coscienza

Fin da quando eravamo piccoli, chi più chi meno, ha dovuto sottostare al principio imperativo per cui quando sbagliava atteggiamenti o parole, o ometteva qualcosa di importante, veniva rimproverato

Chiedere scusa o “per-dono”? Obbligare un bambino o un giovane non serve se non ha preso coscienza

Il rimprovero era la forza della strada da seguire, il guardrail della via giusta che si imponeva alle azioni sbagliate riportando in carreggiata quell’atteggiamento fuori misura. Le forme di questo richiamo prendevano fattezze diverse, non solo per la gravità della marachella o per il motivo dell’azione errata, ma piuttosto per l’adulto che si ergeva giudice ed emetteva la sentenza seduta stante, spesso senza tante attenuanti. Lo sculaccione, il rimprovero, la punizione erano azioni scontate come lo era il momento tragico in cui dovevano essere presentate le scuse. Spesso e volentieri gli adulti, i genitori in primis, sancivano la fine della situazione svantaggiosa con una necessaria stretta di mano alla persona ferita dal comportamento inadeguato, stretta di mano forzata anche e soprattutto quando veniva imposta sentendola ancor di più un’ingiustizia. Mi sono sempre chiesto il senso di questo processo cercando di trovare una prospettiva che potesse coniugare le giuste esigenze pedagogiche, l’accompagnare i piccoli in questo difficile percorso di errore e l’utilità percepita dall’esperienza da parte del piccolo. Credo che per aiutarci a migliorare questo passaggio educativo necessario si debbano aggiungere una pluralità di azioni concrete, tappe opportune di crescita che aiutino il bambino prima e il giovane poi a progredire in questa maturità relazionale. La prima fase ha bisogno che ci sia l’ammissione dell’errore. Questo è fondamentale. Quante volte nel rimprovero la frase più ascoltata è «ma non è colpa mia!», quante volte i ragazzi e anche noi adulti, spesso e volentieri, ci nascondiamo dietro a un dito adducendo a eventi incontrollati comparsi all’improvviso al di fuori della nostra volontà? Ecco, già qui vediamo che la situazione si complica. Un conto è chiedere scusa forzati come i bambini piccoli che non si ricordano neanche il motivo del contendere, un altro conto è ammettere chiaramente l’errore. Sostare di fronte al fallimento, all’azione sbagliata, alla rabbia, alla vendetta, all’errore. Quanta forza ci vuole! Quanta adultità, maturità, responsabilità! Una volta ammesso e dichiarato l’errore allora si può e si deve chiedere scusa o, meglio, perdono. È curioso questo momento; la persona che reca l’offesa chiede un “dono”, invece di darlo lo chiede, e non chiede solo un dono ma un “per-dono”, un dono moltiplicato. Questo deriva dalla nostra tradizione cattolica che nel sacramento della confessione viene amplificato perché il dono ricevuto viene proprio dalla Misericordia di Dio. Cosa c’è di più certo del perdono di Dio? Quindi io che reco un danno poi vado a riscuotere un dono, incredibile, «felice colpa» diceva sant’Agostino, riferito al torto fatto da Adamo a Dio che ha ripagato la colpa del primo uomo con l’Uomo-Dio, Gesù. Se vissuto così capiamo il significato salvifico del chiedere il perdono che fa diventare una felice colpa il torto fatto trasformandolo in un pretesto per il Bene! La terza tappa ha a che fare con il riparare al danno subito. Un’altra cosa tanto difficile oggi. Chi rimedia più a quello che ha fatto? Tanto ormai è fatta, cosa si può fare? E invece anche questo fa parte del perdono, questo è l’impegno certo, concreto del fatto che il perdono ricevuto muove un desiderio imminente di bene, come il sordomuto che miracolato proclamò pieno di stupore la gloria di Dio. Il riparare al danno non è la vendetta del torto subìto ma la conclusione degna di un percorso che porta alla salvezza, non togliamo questa possibilità, non lasciamo monca la strada della redenzione. Riparare al danno può essere anche il momento in cui si riflette sull’errore fatto da un’angolatura ben differente rispetto alla paura della reazione altrui, una prospettiva di restituzione del bene ricevuto nonostante lo sgarro iniziale. Questo alleggerisce, rinfranca e risana. Così d’ora in poi per noi e per i nostri ragazzi cerchiamo una strada di responsabilità anche e soprattutto nell’errore che diventa un germe di bene, se al bene diamo la possibilità di attecchire.

Matteo Pasqual
Educatore, Pedagogista, Filosofo Clinico e Formatore Sociale

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