Bene comune, non deleghiamo

Quanto sta avvenendo in queste settimane con le proteste di una parte del modo agricolo evidenzia gli ostacoli e la forte opposizione che incontrano le politiche di cambiamento necessarie per contrastare la crisi climatica, la perdita di biodiversità e l’inquinamento.

Bene comune, non deleghiamo

In parte sono preoccupazioni legittime perché il cibo nel nostro sistema economico e sociale è considerato una merce tra le altre e per questo soggetta alla volatilità dei prezzi, allo scarso potere contrattuale dei piccoli produttori (che sono la maggioranza) e alla speculazione finanziaria. Vi è quindi, a monte, la necessità di riconoscere il giusto valore al cibo che è prima di tutto un bene comune. Ciò che non è accettabile è reiterare l’idea sbagliata di una contrapposizione tra ambiente e agricoltura. Ormai sappiamo dal punto di vista scientifico, ma lo tocchiamo con mano anche nella vita quotidiana, che gli esseri umani sono parte integrante dell’ambiente naturale le cui attività hanno una conseguenza diretta e indiretta sulla qualità dell’ambiente stesso in termini di inquinamento e di degrado (o tutela) delle risorse naturali. In Europa la maggior parte degli ecosistemi naturali è minacciata tanto da mettere a rischio la possibilità di fornire quei preziosi servizi ecosistemici da cui dipende non solo la qualità della vita, ma anche dell’economia visto che oltre la metà del Pil globale dipende dai materiali e dai servizi forniti dalla natura. Inoltre, la produzione agricola incide per circa il 12 per cento delle emissioni europee di gas serra, il 70 per cento delle quali è imputabile agli allevamenti, mentre le stime dell’Ue Soil Observatory denunciano che il 70 per cento dei suoli in Europa è in cattive condizioni. Seppur negli ultimi vent’anni si è registrata una riduzione dell’impatto ambientale complessivo del settore agricolo, siamo ancora lontani dal raggiungere gli obiettivi di sostenibilità indicati nell’Agenda 2030. In questa direzione vanno le misure previste in attuazione del Green Deal e della strategia “From Farm to Fork: dal produttore al consumatore”, come la direttiva sulla qualità dell’aria che impone restrizioni sul nitrato o sullo zolfo, il regolamento europeo sul “ripristino della natura” che richiede una progressiva rinaturalizzazione degli habitat del 20 per cento al 2030, quello sulle limitazioni all’uso dei pesticidi. Governare le profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali imposte da cambiamenti climatici, perdita di biodiversità e inquinamento richiede risposte che sono inevitabilmente complesse e con un orizzonte di medio-lungo periodo. Risposte a cui sono chiamate le istituzioni ai vari livelli di governo – europeo, nazionale, regionale, locale – mettendo in campo adeguate argomentazioni per spiegare l’importanza di questi obiettivi e come essi siano in linea con le conoscenze scientifiche e le migliori competenze per trovare soluzioni praticabili capaci di bilanciare le diverse esigenze in gioco. Questo è il compito di una politica che ha cura del bene comune e non certo decidere di cancellare o rinviare le scelte come è stato fatto di fronte alle proteste di queste settimane per rincorrere un consenso a breve termine. Ma è tutta la società che deve fare la sua parte perché la transizione ha bisogno di essere accompagnata e sostenuta per far comprendere che il cambiamento è urgente e necessario, ma anche possibile e socialmente desiderabile.

Matteo Mascia
Coordinatore del Progetto Etica e Politiche Ambientali della Fondazione Lanza

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