Alice Rohrwacher, dagli Oscar a Cannes76: “Il cinema insegna a guardare con gli occhi dell’altro”

“Le Pupille” è un cortometraggio sull’Italia di ieri, un racconto uscito dalla penna di Elsa Morante, che grazie allo sguardo ironico e poetico della regista è diventato una deliziosa favola sul Natale ma anche un arioso messaggio di libertà declinato al femminile. Di questo e di altro nell'intervista con Alice Rohrwacher

Alice Rohrwacher, dagli Oscar a Cannes76: “Il cinema insegna a guardare con gli occhi dell’altro”

L’avventura straordinaria di Alice Rohrwacher, regista e sceneggiatrice che in poco più di dieci anni di carriera – esordio folgorante nel 2011 con “Corpo celeste”, seguito dai pluripremiati “Le meraviglie” (2014) e “Lazzaro felice” (2018) – si è imposta nel panorama italiano e internazionale con una chiara identità visiva e narrativa, con una poetica intensa e riconoscibile, dai più accostata allo sguardo dolce di Ermanno Olmi. Nel maggio 2022 la Rohrwacher presentava al 75° Festival di Cannes il suo cortometraggio “Le Pupille”, prodotto dal Premio Oscar Alfonso Cuarón, da Carlo Cresto-Dina con la sua Tempesta e dalla Disney. Un piccolo gioiello che parla dell’Italia di ieri, un racconto uscito dalla penna di Elsa Morante, che grazie allo sguardo ironico e poetico della regista è diventato una deliziosa favola sul Natale ma anche un arioso messaggio di libertà declinato al femminile. Il film è uscito lo scorso 16 dicembre su Disney+ e a gennaio 2023 è giunta la notizia della corsa ai 95mi Academy Award, i Premi Oscar. Da Hollywood poi di nuovo sulla Croisette: a maggio la Rohrwacher è stata invitata in concorso al 76° Festival di Cannes con il suo ultimo film “La chimera””. Con lei abbiamo parlato di questo anno speciale, in occasione della presentazione de “Le Pupille” a Orvieto, al XVII Festival Arte e Fede diretto da Alessandro Lardani, un prezioso avamposto culturale per il territorio umbro.

Un anno straordinario, dagli Oscar a Cannes76 con “La chimera”. Che avventura è stata?
Un anno impegnativo… infatti adesso mi fermo un po’. Il film “Le Pupille” è nato quasi come un “gioco”: inaspettatamente Alfonso Cuarón mi ha contattato tempo fa per dirigere un piccolo film sul Natale. In verità la sua prima domanda è stata: “Ti piace il Natale?”. Alla mia risposta affermativa, mi ha proposto un lavoro all’interno di una serie di cortometraggi dedicati alle festività di fine anno, affidando a me la riflessione sul momento del Natale. Così mi sono ricordata di una lettera che Elsa Morante aveva scritto a Goffredo Fofi, due persone che stimo e ammiro molto. In questa lettera parlava di una torta. Sono partita da lì. E poi inaspettatamente la Disney è entrata nel progetto e ha prodotto il film. Dico “inaspettatamente” perché Goffredo Fofi, da sempre critico, anarchico, contro il sistema, mai si sarebbe immaginato che questa lettera sarebbe stata prodotta dalla Disney e poi finita persino all’Oscar. E questa cosa è stata così strabiliante al punto da farci dire che davvero tutto è possibile.

“Le Pupille” racconta un’Italia povera, in guerra, con richiami al neorealismo, ma ci offre anche suggestioni per il nostro presente: è un inno alla libertà. È così?
“Le Pupille” è un nome cui ho pensato da subito per questo film. Da quando ho scoperta che la parola “pupilla” vuol dire “bambina”, sono rimasta incantata dal fatto che tutti noi negli occhi abbiamo delle bambine. E che a prescindere da chi siamo, se uomo o donna, giovane o anziano, comunque negli occhi custodiamo delle bambine, che hanno un potere.

Gli occhi, infatti, hanno un potere: come guardare le cose, che sguardo dare alle cose, e persino la possibilità di cambiare le cose.

Quindi ho deciso di ambientare tale storia in un collegio femminile – la vicenda raccontata da Elsa Morante è in un collegio maschile –, perché volevo mettere al centro queste bambine, in particolare una di loro, Serafina, che suo malgrado diventa “ribelle”: in lei in verità non c’è nessuna ribellione, ma semplicemente coerenza. È proprio la sua coerenza che rompe l’equilibrio. Pensando poi al mondo contemporaneo, la torta rappresenta probabilmente le risorse, la ricchezza, il potere, che tutti vogliono per sé. La coerenza però fa sì che questa torta venga rotta e che tutti possano mangiarne un po’, anche chi non sa che la torta esiste.

Nel suo cinema spesso le protagoniste sono bambine o ragazze. Penso a Marta (“Corpo celeste”), a Gelsomina (“Le meraviglie”) e Serafina (“Le Pupille”), senza dimenticare Lila e Lenù nella serie “L’amica geniale”. Segue una prospettiva precisa?
Non lo so se si può dire questo. A parte che nell’ultimo film, “La chimera”, troviamo una banda di uomini “cattivissimi”, di tombaroli; anzi, c’è una tenerezza verso il “maschilismo”, nel senso che sono uomini che devono essere “maschi” loro malgrado. E poi c’è Lazzaro (“Lazzaro felice”) che è sì un santo, ma anche un uomo. È difficile dunque generalizzare. Forse, se penso al primo film, “Corpo celeste”, è facile cercare la vicinanza allo sguardo della protagonista, una ragazza adolescente: pensavo di conoscerla, magari meglio di come avrei potuto conoscere un ragazzo.

Fare questo lavoro, il cinema, è capire l’altro, guardare con gli occhi dell’altro. Crescendo si ha voglia di raccontare la storia di qualcuno che mai avresti potuto incontrare nella tua vita.

Parlando allora del film “La chimera”, in uscita in autunno, com’è nata la scelta degli attori Josh O’Connor e Isabella Rossellini?
È un film dove ci sono molte persone del territorio. Per “Le Pupille”, ad esempio, abbiamo girato a Bologna, dopo aver cercato tanto anche a Orvieto, ma i vicini di casa sono venuti lo stesso fin lì, per fare delle parti. E così è stato anche per “La chimera”, dove c’è un’unione tra attori internazionali e volti del territorio.

In questo lavoro la cosa più bella è far incontrare persone che altrimenti nella vita non si troverebbero: riuscire a mettere insieme un agricoltore del posto con Josh O’Connor o Isabella Rossellini. È creare dei legami, delle pozioni magiche, tra ingredienti che diversamente non starebbero insieme.

Questa è una grande possibilità, perché è proprio conoscendo chi è diverso da noi che il nostro sguardo può crescere. A ogni mio cast c’è il tentativo di trovare queste combinazioni molto strampalate, che insieme formano un’alchimia…

Tra le sue linee di racconto c’è la dimensione popolare, la natura, il sogno, le fiabe, la ricerca della spiritualità. Possiede una marca stilistica puntuale, originalissima, con richiami a Ermanno Olmi. Quali sono stati i suoi maestri?
Sicuramente Ermanno Olmi è stato un grande maestro, ma anche una grandissima persona che ho avuto la possibilità di conoscere e frequentare. Mi diceva sempre che siamo artigiani, non artisti. Un modo per sottrarsi da un pericolo, e al contempo ricondurre tutto a una dolcezza, a una semplicità, nel rapporto con la troupe: è importante creare un affiatamento con la troupe, un coinvolgimento di tutti nel progetto. I rimandi cinematografici comunque sono tanti, anche se a dire il vero i miei riferimenti sono per lo più letterari.

Il cinema è stato da sempre una grande passione, ma essendo cresciuta qui nei dintorni di Orvieto da ragazza vedevo soprattutto un cinema convenzionale. Il cinema di poesia è arrivato dopo, andando in città, nei festival.

La poesia, dunque, nel mio percorso formativo l’ho trovata sempre nella natura e nei libri, nelle letture che facevo. Non a caso questo film, “Le Pupille”, è tratto da una lettera di Elsa Morante. Vorrei aggiungere una cosa: la lettera della Morante termina con le parole “le vie del Signore sono infinite”. Con un po’ di pudore ho preferito indicare “le vie del destino sono infinite”, desiderando aprire un orizzonte più largo ed ecumenico. Ho fatto solo questo piccolo cambiamento alla storia, chiedendo il permesso all’anima di Elsa Morante.

In ultimo, è vero che sta lavorando a una serie sulle fiabe?
Sto lavorando da tanto a un progetto, che è però un po’ troppo grande. Ho una certa paura di iniziarlo. È un’antologia sulla fiaba italiana, che ho già scritto. Ora devo trovare le forze. Credo che si tratti di un “servizio pubblico” che posso fare, perché trovo importante che le nuove generazioni conoscano la fiaba italiana, che non ha né principi né principesse. Ha come protagonista la gente normale, da mugnai a pescatori, dove il magico esce da un fiore che si mette a sanguinare più che da un mostro marino o alato. Il magico, un altro livello della conoscenza, esce dalle cose e mai cala dall’alto, e questo si lega a una forma di spiritualità molto bella che abbiamo ancora: saper vedere l’anima nelle cose. Mi piacerebbe molto lavorare su queste fiabe, ma si tratta di un progetto grande… Quindi adesso mi riposo.

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Fonte: Sir