Festa del Cinema: tuffo al cuore per “Belfast” di Branagh. In cartellone anche “C’mon C’mon” e la docuserie con Papa Francesco

“Belfast” di Kenneth Branagh è un film elegante in bianco e nero, un omaggio alla città natale dell’autore, alla sua famiglia e alle radici identitarie. Con delicatezza e umorismo gentile, Branagh (ri)percorre i sentieri della Storia attraverso lo sguardo di un bambino. Sempre in cartellone c’è “C’mon C’mon” firmato Mike Mills, intenso viaggio-dialogo lungo gli Stati Uniti tra un giornalista e suo nipote, con un eccellente Joaquin Phoenix. Infine, svelata la prima puntata della docuserie “Stories of a Generation with Pope Francis” firmata Simona Ercolani

Festa del Cinema: tuffo al cuore per “Belfast” di Branagh. In cartellone anche “C’mon C’mon” e la docuserie con Papa Francesco

Annunciato come uno dei titoli più attesi, è sbarcato finalmente alla 16ª Festa del Cinema di Roma “Belfast” di Kenneth Branagh, ed è subito un tuffo al cuore. Il film, in un elegante bianco e nero, è un omaggio alla città natale dell’autore, alla sua famiglia e alle radici identitarie. Con delicatezza e umorismo gentile, Branagh (ri)percorre i sentieri della Storia attraverso lo sguardo di un bambino. Sempre in cartellone c’è “C’mon C’mon” firmato Mike Mills, intenso viaggio-dialogo lungo gli Stati Uniti tra un giornalista e suo nipote, con un eccellente Joaquin Phoenix. Infine, svelata la prima puntata della docuserie “Stories of a Generation with Pope Francis” firmata Simona Ercolani e targata Netflix. Il punto Cnvf-Sir.

“Belfast”

“Belfast è il film più personale che abbia mai realizzato”. Così Kenneth Branagh chiarisce subito il perimetro del suo film, aggiungendo: “Mi ci sono voluti cinquant’anni per trovare il modo giusto per raccontarlo, con il tono che volevo. Può volerci molto tempo per capire anche le cose semplici e trovare la giusta prospettiva”. Con “Belfast” il noto autore-attore cinematografico e teatrale – tra i suoi lavori “Frankenstein” (1994), “Hamlet” (1996) e “Assassinio sull’Orient Express” (2017) – è riuscito finalmente a fare i conti con il proprio passato, confrontandosi con la memoria familiare e identitaria. A suggerirgli indirettamente la chiave del racconto è stata la visione di “Dolor y gloria” di Pedro Almodóvar, il ripercorrere pagine della propria storia attraverso l’“auto-fiction”, un realismo puntellato da inserti romanzati.
La storia. Belfast 1969, quando gli occhi del mondo sono puntati al cielo per l’allunaggio, tra le vie di Belfast, in quartieri abitati dalla classe operaia, si accendono duri scontri che trovano l’apice nell’opposizione tra cattolici e protestanti. Quei concitati giorni sono riflessi nello sguardo innocente di un bambino di nove anni, Buddy (Jude Hill), avvolto dall’amore dei genitori (Caitríona Balfe e Jamie Dornan), due onesti lavoratori che custodiscono ancora un legame solido e luminoso, come pure dei nonni (Judi Dench e Ciarán Hinds) sempre pronti al sorriso e alla burla. E nonostante le preoccupazioni crescenti, il lavoro che scarseggia, i negozi assaltati e le continue cariche della polizia, Buddy fa tesoro di una delle più belle stagioni della vita, scoprendo inoltre l’incanto del cinema.
“Belfast” è un atto d’amore che Kenneth Branagh dedica alla propria città, alla memoria di chi è rimasto lì in quei giorni così difficili, come pure di chi è andato via in cerca di futuro; e ancora, una dedica anche a coloro che si sono persi, che hanno scelto sentieri sbagliati. “Belfast” è dunque un film che pacifica, che ricompone le tessere di un mosaico storico-sociale frastagliato, doloroso, dove figurano anche frizioni tra cattolici e protestanti. Branagh racconta quel contrapporsi nella prospettiva protestante, all’interno della propria dimensione familiare, ma il suo sguardo è del tutto avvolgente e comprensivo. Conciliante. Non ci sono né vincitori né vinti; c’è sofferenza sì, ma stemperata dalla tenerezza e da un diffuso umorismo.
Kenneth Branagh firma probabilmente il film della vita, un guadagno raggiunto in piena maturità artistica e personale, che gli ha permesso di accostarsi ai suoi ricordi con sguardo rinnovato e libero, sostenuto da nostalgica dolcezza. Scritto e diretto con grande mestiere, ricorrendo a un uso raffinato del bianco e nero (con oculati inserti a colori), “Belfast” conquista inoltre per le interpretazioni, tutte di grande spessore. In particolare, Judi Dench cesella la figura della nonna con rara bravura, regalando sul finale le note più vibranti e commoventi. Lì, il film incontra poesia e sentimento. Dal punto di vista pastorale “Belfast” è consigliabile, problematico e adatto di certo per dibattiti.

“C’mon C’mon”

Che meraviglia anche “C’mon C’mon”, dramma familiare intimista in bianco e nero firmato dal regista statunitense Mike Mills. Un viaggio a tappe nel Paese a stelle e strisce – Los Angeles, New York, Detroit e New Orleans – al seguito del giornalista radiofonico Johnny (Joaquin Phoenix) e di suo nipote Jesse (Woody Norman) di otto anni. La sorella di Johnny, Viv (Gaby Hoffmann), deve stare vicina all’ex marito caduto in una grave forma depressiva, così si crea l’occasione inattesa affinché Johnny e Jesse possano per la prima volta trascorrere del tempo insieme, conoscersi. Ne nasce un dialogo torrenziale, coinvolgente, dove zio e nipote imparano a leggersi personalmente e reciprocamente, offrendo anche slanci per riparare il legame deragliato tra Johnny e Viv.
Girato con evidente eleganza, “C’mon C’mon” di Mike Mills esplora le stanze del cuore dei protagonisti e insieme i quartieri delle più note città americane, con un indagare che procede tra semplicità e realismo poetico. Un viaggio fisico, familiare, esistenziale, che apre alla rinascita, soprattutto dei protagonisti, capaci di (ri)trovarsi. Sebbene il film presenti qualche sbavatura, qua e là delle lungaggini, nell’insieme “C’mon C’mon” risulta un’opera compatta, intensa e di grande raffinatezza introspettiva.
A riempiere la scena, coprendo ogni possibile difetto dell’opera, è un sempre sorprendente Joaquin Phoenix, che conferma tutto il suo talento, la capacità di sagomare i personaggi: qui è nudo, scarno, il modo in cui abita il giornalista Johnny, che fa brillare con sfumature di diffusa tenerezza. Una candidatura all’Oscar sarebbe il minimo. “C’mon C’mon” è un film consigliabile, problematico e per dibattiti.

“Stories of a Generation with Pope Francis”

È la prima docuserie di casa Netflix con papa Francesco. Si chiama “Stories of a Generation with Pope Francis”, progetto in quattro episodi diretto e prodotto da Simona Ercolani con la sua Sand-by-me, che vede la collaborazione del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede. Prendendo le mosse dal libro “La saggezza del tempo” (2018), dal dialogo tra papa Francesco e il gesuita Antonio Spadaro, la docuserie affronta il tema dell’incontro tra generazioni, mettendo a tema alcuni aspetti centrali della vita. Filo rosso narrativo sono le suggestioni che papa Francesco ha offerto in un’intervista originale, di cui si dà conto episodio dopo episodio.
Ancora, nelle quattro puntate i protagonisti sono tutti testimoni scelti da vari angoli del mondo, vite più o meno comuni: da Martin Scorsese in dialogo con la sua terzogenita Francesca all’etologa britannica Jane Goodall, fino a Estela Barnes de Carlotto, presidente dell’associazione Abuelas de Plaza de Mayo, capofila nella ricerca della verità sul dramma dei desaparecidos in Argentina.
Racconti di vita, di quotidianità, dove trovano posto anche pagine di dolorosa sofferenza; ritratti condotti sempre con delicatezza e rispetto, mai privi di uno sguardo fiducioso. Un mettere in condivisione memorie, riflessioni, drammi, emozioni, come delle buone pratiche da custodire. Il linguaggio adottato dalla docuserie è sostanzialmente semplice, lineare, in cerca di sfumature pop in chiave divulgativa: la serie è pensata infatti per raggiungere più orizzonti generazionali, in testa i giovani, grazie all’intesa con il colosso streaming Netflix. Nell’insieme “Stories of a Generation with Pope Francis” è consigliabile e adatto per dibattiti.

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Fonte: Sir