L’autismo e tanto altro in una serie tv coreana

Su Netflix “It’s ok non to be ok” ha incantato il piccolo, ma non troppo esiguo, pubblico di cultori del k-drama. Recensione pubblicata sulla rivista SuperAbile Inail

L’autismo e tanto altro in una serie tv coreana

Dallo scorso agosto su Netflix, “It’s ok non to be ok” ha incantato il piccolo, ma non troppo esiguo pubblico di cultori del k-drama: i serial televisivi sudcoerani che, spinti anche dal successo di “Parasite” del regista Bong Joon-ho, vincitore nel 2019 della Palma d’oro a Cannes, hanno ormai fan in mezzo mondo. Articolata in 16 episodi di circa 70 minuti ciascuno, la serie gira intorno alle vicende di due personaggi a prima vista antitetici: l’operatore sanitario Moon Gang-tae e la scrittrice per l’infanzia Ko Moon-young. Lui è un giovane gentile e riservato, instancabile nel lavoro e dotato di raro senso di umanità nei confronti dei pazienti psichiatrici con cui si trova ad avere a che fare. Lei è magnetica, sprezzante e, a tratti, perfino crudele. Ma, soprattutto, è etichettata con un disturbo antisociale di personalità. Eppure, a dispetto delle apparenze, tra i due esiste un’affinità di fondo, grande tanto quanto la distanza che sembrerebbe separarli. Li accomuna, in particolare, un passato familiare doloroso, le cui ripercussioni cercano entrambi di lenire attraverso una presa di distanza siderale nei confronti del mondo circostante.

Ma c’è anche un altro personaggio che con i due protagonisti condivide l’impossibilità di sentirsi a casa nel mondo. Si tratta di Sang-tae, il fratello maggiore di Moon Gang-tae. Sang-tae è autistico e, come suo fratello minore, è traumatizzato dalla perdita della mamma quando entrambi erano bambini. Da allora i due sono restati sempre insieme con Moon Gang-tae a prendersi costantemente cura di quel fratellone, che riesce ad accudire con estrema empatia e competenza. Come il trauma infantile e l’alienazione affettiva, in “It’s ok non to be ok” l’autismo appare un’ulteriore manifestazione della difficoltà del vivere. Estremamente convincente e naturale l’interpretazione di un personaggio autistico da parte dell’attore Oh Jung-se, che ben mette in scena le crisi, le stereotipie, gli scoppi di gioia di Sang-tae, senza mai però calcare la mano. Ipnotica senza mai diventare estetizzante, intensa senza essere melensa, “It’s ok non to be ok” è una serie da guardare tutta d’un fiato per il tono e i temi trattati: il male di vivere e il potere dell’empatia nel raggiungimento della guarigione interiore. Sullo sfondo, ma non troppo, i tanti affascinanti personaggi che popolano l’ospedale psichiatrico “ok”, dove lavora Moon Gang-tae.

(La recensione è tratta dal numero di SuperAbile INAIL di marzo, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)

Antonella Patete

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)