Ma quale regressione? Semmai ritorno all’Altro. L’Avvento tra un cinema che guarda a Dickens e un libro che ricorda il primo presepe della storia

Il presepe offre con la sua storia questa antica e nuova possibilità di riscoprire l’essenziale, il calore dell’affetto nonostante crisi e mancanze materiali.

Ma quale regressione? Semmai ritorno all’Altro. L’Avvento tra un cinema che guarda a Dickens e un libro che ricorda il primo presepe della storia

Certo, è vero, uscendo dal cinema dopo la visione del Principe di Roma diretto da Edoardo Falcone, sono quelli i nomi che ti salgono alla memoria: Il Marchese del Grillo di Mario Monicelli per la romanità sfrontata, la spocchia e però pure per il gusto del rischio di Sordi-Giallini, Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga per l’ansia patologica di passare da ricco a nobile, e soprattutto il Dickens di Un canto di Natale.

Di quest’ultimo colpisce non tanto la longevità -Dickens lo scrisse nel 1843, a trentun anni- ma la capacità di trasmettere scosse di commozione non solo a bambini, ma a tutte le età, anche ragazzi usciti dalle palestre o dalle discoteche. E d’altronde le sue continue riprese filmiche, comprese le contaminazioni con il cartoon e le ghost-story, stanno lì a testimoniare questa longevità. Il Principe romano rifiuta l’amore per proseguire la scalata sociale, deve elaborare l’umiliazione e la tristezza un’infanzia solitaria e in luoghi lontani dal calore domestico, deve misurarsi con l’intervento soprannaturale che attraversa il tempo e gli presenta il conto di un futuro splendente di denaro ma buio quanto ad affetti, rivelandogli il disprezzo degli altri. Praticamente come l’altrettanto avaro Scrooge, protagonista del Canto, che dice no a chi con un piccolo dono passerebbe un Natale migliore. Alla salute di quei critici saputelli, del tipo “io non ci casco mica”, che attaccano questa produzione come facile ricorso alla commozione e ai sentimenti popolari, quando è proprio da qui che dovremmo ripartire per fare Natale ogni giorno: lo sguardo verso l’altro non lontanissimo che sta passando un brutto momento.

Una persistente, secolare attualità che ce ne presenta un’altra con una data precisa: il 1223. Quando cioè Francesco d’Assisi, reduce dall’approvazione di papa Onorio III, chiese ad un suo amico, il nobile Giovanni Velita, di aiutarlo nella creazione di ciò che diverrà il simbolo stesso della Natività: il presepe. Oggi un libro del frate francescano – scrittore e giornalista – Enzo Fortunato, Una gioia mai provata (San Paolo, 158 pagine, 14 euro) ci ricorda l’evento di Greccio che ha iniziato una tradizione viva e ancora oggi segno di pace e fratellanza. Lo fa non solo ripartendo storicamente dalle grotte sabine di quel giorno di ottocento anni fa, ma anche attraverso le testimonianze vive di quanti gli hanno scritto per lasciare segno del loro presepe, della loro continuazione di quell’evento che ha cambiato l’immaginario collettivo della cristianità e generato opere d’arte ineguagliate.

La seconda parte del libro è infatti testimonianza viva di chi ricorda natali di povertà, quando magari non c’era molto a tavola, o di lontananza dai genitori andati a trovare lavoro all’estero, o di dissidi e solitudini. Quello che emerge da queste testimonianze e da quella del Poverello è, come hanno cantato gli Enigma, un “return to innocence”, un ritorno all’innocenza. Il che non è, come nella aristocratica visione di qualcuno, una concessione all’ignoranza e al disimpegno, quando non una regressione psichica e politica, ma la capacità di andare oltre l’effimero, l’impermanente, il materiale.

Il presepe offre con la sua storia – e con Francesco alle sue soglie – questa antica e nuova, per la società dei consumi, possibilità di riscoprire l’essenziale, il calore dell’affetto nonostante crisi e mancanze materiali. Un ritorno al sé vero e agli altri spogliandosi del troppo e del superfluo, come aveva fatto Francesco il ricco, come farà l’avaro che scoprirà la vera ricchezza facendo pace con il suo passato di povertà e solitudine. Un po’ come il suo figliastro, ricco e sedicente principe romano.

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Fonte: Sir