Venezia e la sua mostra ci mettono di nuovo di fronte alla trascrizione filmica di romanzi e racconti

Ogni film è una sorta di tradimento dell’originale, perché realizza solo ciò che si può rendere visibile e comprensibile in quei fatidici novanta minuti.

Venezia e la sua mostra ci mettono di nuovo di fronte alla trascrizione filmica di romanzi e racconti

La 76esima mostra del Cinema di Venezia vedrà anche un Jack London a trazione napoletana: uno dei suoi romanzi più lividi e cupi, “Martin Eden”, del 1909, diviene film con la regia di Pietro Marcello, solo che il destino di un marinaio-scrittore che navigava per i mari del sud si trasferisce nelle acque del golfo. Questa singolare contaminazione non deve sorprenderci più di tanto, perché se da una parte il rapporto con il libro è pane quotidiano nella vita del cinema, dall’altra non sono mai mancate trasgressioni, a volte irrispettose, delle trame che una volta avremmo chiamato cartacee. La regista americana Julie Taymor cambiò addirittura sesso al protagonista della commedia shakesperiana “La tempesta”, Prospero, nel film che – quando si dicono le coincidenze – chiuse proprio la mostra veneziana nel 2010.

Il conflitto scrittore-regista viene da molto lontano: Giorgio Bassani nel 1970 ritirò il proprio nome dal film di Vittorio De Sica “Il giardino dei Finzi-Contini” perché ritenne che la sceneggiatura avesse irrimediabilmente banalizzato il suo celebre romanzo. Ma se è per questo, sei anni prima la scrittrice Pamela Lyndon Travers (che in realtà si chiamava Helen Lyndon Goff), ebbe molto a discutere, e dal suo punto di vista non le si può dar torto, con Walt Disney per la realizzazione filmica del suo “Mary Poppins”. Un romanzo di formazione che mette una famiglia di fronte ad una sorta di grande madre, venuta a insegnare ai ragazzi la necessità di accettare il dolore e il distacco, era divenuto un musical e per di più “contaminato” da cartoni animati.

Anche chi ha rispettato in apparenza il modello originale, come Luchino Visconti, che nel 1963 realizzò il suo film forse più celebre, “Il Gattopardo”, in realtà ha dovuto fare dolorose scelte, rischiando di tradire, a favore della cifra estetica (si pensi alla celebre scena del ballo) il senso di profonda disillusione e di fine imminente che attraversa il romanzo di Tomasi di Lampedusa. Càpita a volte anche che il film metta in ombra il racconto da cui ha preso la vita, ed è il caso di “Ladri di biciclette”, del 1948, ancora una volta di De Sica (che d’altronde è stato uno dei protagonisti del nostro cinema dagli anni Cinquanta), che ha oscurato il romanzo di Luigi Bartolini. E poi c’è la questione dell’accavallarsi delle sceneggiature, anche per romanzi relativamente giovani, come nel caso de “Il nome della rosa” (1980) di Umberto Eco che ha già conosciuto due riduzioni, si fa per dire, l’ultima delle quali non esente da polemiche e accuse di “tradimento” del senso originario. Ma si può essere fedeli ad un testo labirintico che allude alla impossibilità di comunicare il senso stesso delle cose e della vita? Anche quando l’autore del testo è meno inclemente con i lettori – e gli sceneggiatori – i problemi fioccano: nelle trascrizioni filmiche del capolavoro di Scott Fitzgerald, “Il Grande Gatsby”, grandi protagonisti come Redford e DiCaprio, che si sono indirettamente confrontati a distanza di quarant’anni, non sono riusciti a dare, secondo alcuni, il senso della conclusione di una stagione apparentemente felice, quella delle feste e di uno sfarzo senz’anima, che di lì a poco sarebbe stata tragicamente fagocitata dalla Grande Depressione.

Ogni film è una sorta di tradimento dell’originale, perché realizza solo ciò che si può rendere visibile e comprensibile in quei fatidici novanta minuti, e non è detto che quel “visibile” sia ciò che percepisce il lettore più attento a contatto con il romanzo. Ma una cosa è sicura: se la visione di un film ci stimola a leggere, allora viva le “infedeltà” degli sceneggiatori.

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Fonte: Sir