Il calcio al buio apre alle donne

Una scuola di football, una prima squadra maschile e, da pochissimo, anche una squadra femminile. Ecco l’Asd Disabili Roma 2000, impegnata da anni nella promozione e diffusione del calcio a cinque per ciechi

Il calcio al buio apre alle donne

È grazie a Danny se oggi sono un’allenatrice di blind football. Prima di incontrarlo, l’idea non mi aveva mai sfiorata. Nemmeno sapevo che a Roma ci fosse una società sportiva che facesse allenamenti di calcio per ciechi”. A parlare è Alma Dhesiollari: laureata in Acquacoltura e gestione della pesca nel suo Paese d’origine – la Grecia –, laureanda in Scienze motorie in Italia, è tra gli allenatori della squadra femminile di calcio a cinque dell’associazione sportiva dilettantistica Disabili Roma Calcio 2000, società capitolina nata nel 1997 inizialmente per rilanciare l’attività di calcio per non vedenti che alcuni tra i soci fondatori praticavano da anni, diventata con il tempo supporto concreto per i singoli e le famiglie nella scelta di attività sportive basate sulle reali esigenze e le attitudini individuali e non sulla prossimità o la disponibilità.

“Rientrata in Italia dopo un tirocinio in Germania ho cominciato subito a lavorare come allenatrice di atletica. Lì ho incontrato un bambino, Danny appunto, di origine sudamericana. Cieco dopo due operazioni, parlava pochissimo l’italiano. In pratica era la prima volta che usciva di casa e non aveva mai avuto esperienze di socialità. Mi sono legata moltissimo a lui, così ho cercato un’attività che gli permettesse di conoscere altri bambini con le sue difficoltà: pensava di essere l’unico in quella situazione. Un amico mi ha messo in contatto con il Comitato italiano paralimpico e, in un secondo passaggio, con Sauro Cimarelli, dirigente sportivo dell’Asd Disabili Roma 2000. Quando ci siamo incontrati è esplosa la passione mia e di Danny per il calcio. Ho cominciato a lavorare con loro, ho frequentato i corsi per diventare allenatrice e mi sono ritrovata coinvolta in questa meravigliosa avventura. Non finirò mai di ringraziarli, hanno cambiato la mia vita”. Quando, nel 2019, Sauro Cimarelli e Luca Mazza, allenatore della prima squadra maschile, hanno deciso di “metter su” anche una squadra femminile, rivolgersi ad Alma per gli allenamenti è stato naturale. “Di fatto ci alleniamo tutti insieme, perché con le ragazze siamo ancora nella fase degli allenamenti personalizzati, individuali o semi-individuali. Dobbiamo sviluppare, in primis, le abilità motorie, il coordinamento, l’equilibrio. Di tattica ci occuperemo più avanti, ma siamo sulla strada giusta: le ragazze stanno facendo enormi progressi”.

Parlare di blind football femminile, oggi, è tutt’altro che scontato: l’Asd Disabili Roma 2000 è l’unica società in Italia ad avere una squadra in rosa. La società propone attività di atletica leggera, scherma, judo, karate, arrampicata sportiva, corsi di nuoto, equitazione, ballo sportivo, spinning, showdown e trekking, ma il core business è il calcio a cinque per non vedenti. C’è la prima squadra maschile riconosciuta dalla Fispic, la Federazione italiana sport paralimpici per ipovedenti e ciechi, composta da una dozzina di atleti tra i 18 e i 60 anni (già vincitrice di due Campionati nazionali, due Supercoppe e una Coppa Italia), quattro anni fa è nata la scuola calcio, con una dozzina di ragazzini tra i 9 e i 14 anni (alcuni già passati in prima squadra) e nel 2019 è stato avviato il percorso con le ragazze. Complice la pandemia, il gruppo oscilla tra le tre e le cinque giocatrici, tutte tra i 15 e i 30 anni. A ospitare gli allenamenti è il Centro di preparazione paralimpica in via delle Tre Fontane a Roma: il mercoledì la prima squadra, il sabato la scuola calcio, la squadra femminile e le partite casalinghe della prima squadra.

“Non sono tutti ragazzi romani, anzi. C’è un ragazzo campano che per un anno ha fatto da solo il pendolare sui treni regionali Caserta-Roma e oggi è docente di lettere e ha scelto di mettere la sua passione in stand by, c’è un ragazzo francese che arriva a Roma il martedì e si trattiene fino al sabato, tutto a suo spese, e molte atleti sono marchigiane. Il nostro non è uno sport diffuso su tutto il territorio, per questo siamo diventati un po’ un punto di riferimento”, spiega Luca Mazza. Quest’anno il campionato nazionale maschile ancora non è ripartito (conta 6-7 squadre, da Crema a Lecce), mentre quello femminile non esiste: “Ci piacerebbe, quando le nostre calciatrici saranno pronte, organizzare partite con le altre squadre europee. Per ora ci avvaliamo della facoltà di inserire nelle squadre maschili una o due ragazze, il regolamento lo prevede”.

Una tesserata dell’Asd Disabili Roma 2000, effettivamente, ha già esordito con i colleghi maschi: si tratta di Melissa Marena, 15enne romana e romanista. “La mia passione per il calcio comincia quando ero molto piccola”, dice. “Allora riuscivo ancora a vedere qualcosa, e in televisione diedero una partita della Roma con Totti. La scintilla scoccò immediatamente”. Melissa ha cominciato a giocare con l’Asd lo scorso maggio: un talento e una sicurezza che non sono passati inosservati, tanto da convincere la società a farla esordire, a metà settembre, in un torneo maschile di calcio a cinque a Bruxelles. “Un triangolare tra noi, Sanremo Liguria e Cecifoot Charleroi”, squadra belga di Marcinelle. Melissa era l’unica ragazza in campo: “L’abbiamo ammirata soprattutto per i suoi coraggiosi e spesso provvidenziali interventi con i quali ha tempestivamente neutralizzato le incursioni più pericolose dei giocatori avversari”, ha scritto la società sulla sua pagina Facebook.

“È stata la mia prima uscita ufficiale. Mi è piaciuto molto, ci ho messo tutta la mia buona volontà per farmi valere ed esprimermi al meglio. È stata anche un’occasione per crescere tatticamente: all’inizio avevo paura, poi mi sono sciolta e ho cominciato a correre”. Prima del calcio Melissa – che oggi frequenta il liceo delle scienze umane e sogna un futuro da calciatrice professionista e da giornalista sportiva – per sei anni ha praticato karate, ma non si sentiva a suo agio. “Ho provato a giocare un’estate in una partita di calcio a undici, tutti vedenti tranne me. Mi sono sentita felice, tranquilla. Così ho cominciato ad allenarmi a casa, con mio fratello maggiore. Poi a maggio, dopo la pandemia, ho cominciato con l’Asd”. Melissa pesa ogni parola. “Ho sempre avuto paura di esprimermi davanti alle persone, spesso ho paura di sbagliare nonostante ci metta sempre tutto il mio impegno e la mia buona volontà, nonostante sappia di potercela fare. Il calcio mi ha dato gli strumenti per affermarmi: quando sono arrabbiata, metto tutta la rabbia per segnare un gol. Una scarica che mi rende felice, che mi fa sentire di essere viva. Con i compagni e le compagne della società mi diverto un sacco, ridiamo e scherziamo. Con molti di loro siamo amici anche fuori dal campo: giocare in una squadra mista non ci fa nessun effetto, di fatto stiamo sempre insieme”. E se la passione per il calcio è di famiglia, come hanno preso, genitori e fratello, la decisione di fare sul serio? “È per tutti un bell’impegno: abito in provincia di Roma e fare avanti-indietro non è semplice. Ma i miei genitori mi hanno sempre detto di fare ciò che mi rende felice. E il calcio mi rende felice”.

Le giocatrici di calcio imparano a saltare in alto

Il boom del calcio a cinque per ciechi, a livello internazionale, ha registrato un’accelerata con i Giochi di Atene 2004, quando esordì come disciplina paralimpica. È normato da un regolamento specifico: la palla è sonora e il campo ha le dimensioni di un normale campo da calcio a cinque (20 metri per 40). Lungo la linea del fallo laterale ci sono sponde alte fino a un metro e mezzo: se la palla ci sbatte sopra e rimbalza è ancora in gioco, perché la sponda fa parte del campo stesso. Esiste il calcio d’angolo, perché sulla linea di fondo non ci sono sponde. Il portiere è sempre vedente ma ha un’area ristretta all’interno della quale può muoversi: un metro laterale e due in avanti, se esce è calcio di rigore. Gli allenatori sono due: uno sta a centrocampo a guidare la fase centrale del gioco, e può parlare solo quando la palla è nel suo perimetro d’azione. L’altro allenatore sta dietro la porta avversaria e parla con gli atleti per aiutarli a fare gol, ma può farlo solo negli ultimi 13 metri. È fondamentale che le voci dei due allenatori non si sovrappongano mai: durante una partita di calcio a cinque per ciechi deve esserci silenzio assoluto – ma ai gol si può esultare – per decifrare bene le voci degli allenatori, il suono della palla e la voce dell’avversario in avvicinamento. “L’atleta che va incontro al pallone deve annunciarsi dicendo “Voi”, ripetendolo finché non toglie la palla all’avversario o entra in contatto con lui. Questo, naturalmente, per evitare scontri”, spiega Mazza. “Voi” è una formula internazionale per segnalarsi in avvicinamento. Le porte sono 3,26x2,14 metri, dunque un po’ più grandi di quelle standard, e le mascherine sugli occhi sono obbligatorie per tutti i calciatori per evitare che chi vede luci e ombre sia avvantaggiato. Si gioca su due tempi da 25 minuti e le altre regole sono quelle del calcio a cinque per normodotati.

“All’inizio, il rapporto allenatore-atleta è di uno a uno”, spiega Mazza. Durante gli allenamenti della scuola calcio e della squadra femminile si insegnano la mobilità, il coordinamento, l’equilibrio. È necessario imparare a sentire il rumore della palla e la voce dell’allenatore. “Con la prima squadra, invece, lavoriamo in gruppo e alleniamo tecnica e tattica”. Qualche anno fa la Fispic ha organizzato il primo corso in Italia per diventare allenatore di squadre di calcio a cinque non vedenti. “Cambia un po’ la tipologia d’allenamento, ma sempre di calciatori si tratta”, sottolinea Mazza. “Bisogna calarsi un po’ nella parte, avere chiaro che i nostri atleti si orientano con i suoni e il silenzio, non con la vista. Spesso dobbiamo “movimentare” i ragazzi per far capire loro i movimenti, assicurandoci che abbiamo compreso per bene. Ci vuole tanta pazienza e tanta attenzione per adattarci ai giocatori e accompagnarli al massimo delle loro prestazioni. Servono passione, energia, sinergia e collaborazione con gli atleti, perché acquisiscano una piena fiducia nei nostri confronti. Noi allenatori diventiamo un po’ la loro luce”.

Un ruolo cruciale, nell’approccio a questo sport, è quello ricoperto dai genitori: fondamentali per i più piccoli, sono chiamati a grossi sacrifici anche nel caso di figli più grandi. “Sin dal primo incontro spieghiamo loro tutto e facciamo vedere una partita. Ai nostri atleti cerchiamo sempre di far fare tutto, e lo stesso chiediamo alle famiglie, perché li lascino mangiare da soli, vestirsi da soli. Suggeriamo di lasciarli il più liberi possibile, per favorire una sempre maggiore autonomia. Perché intendiamoci: il calcio per non vedenti è difficilissimo ma, quando ci si riesce, di riflesso si riescono a fare molte più cose anche nella vita di tutti i giorni. I nostri atleti cresceranno e avranno bisogno di essere indipendenti. E se non diventeranno calciatori o calciatrici, pazienza: fare sport e giocare a calcio darà loro una mano nella vita. Abbiamo in squadra atleti che, appena arrivati da noi, da soli non camminavano. Ora corrono. Liberi.”

(L’articolo è tratto dal numero di novembre di SuperAbile INAIL, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)

Ambra Notari

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)