Sono un’atleta, ma anche di più: Nadia Bala si racconta

Lo sport, la malattia, lo studio, il lavoro e la maternità. Uno dei volti più genuini del movimento paralimpico italiano, racconta la sua vita e i suoi progetti in un'intervista

Sono un’atleta, ma anche di più: Nadia Bala si racconta

Atleta, conduttrice televisiva, lavoratrice e, soprattutto, madre, Nadia Bala non ha tempo per fermarsi neanche un secondo. Nota soprattutto per essere ambasciatrice del sitting volley italiano e atleta della Nazionale femminile, ad allietare le giornate della campionessa di Rovigo da due anni è arrivato anche il piccolo Francesco, esaudendo forse il più grande tra i desideri di Nadia: quello di diventare mamma.

Da due anni è anche mamma, tutti però la conoscono soprattutto per i suoi successi sportivi. Cosa ci dice del suo ruolo di atleta?
“Le persone che mi conoscono sanno che ho cominciato a praticare sport da piccola, scegliendo la pallavolo come tante bambine della mia generazione. Ho iniziato un po’ per caso e un po’ perché adoravo il cartone di Mila e Shiro, ma presto la pallavolo è diventata la mia grande passione. Mi piaceva specialmente lo spirito di squadra, che ti porta a condividere le sconfitte e le vittorie. Per me lo sport è sempre stato un modo per stare con le amiche, ma anche per esprimere il mio spirito agonistico. Per un periodo ho fatto anche l’arbitro, ho iniziato perché ero curiosa di capire per quale ragione in partita mi fischiassero sempre la doppia, ma poi mi sono appassionata”.

E poi cos’è successo?
“Poi purtroppo mi sono ammalata: ho una malattia congenita rara, che si è rivelata nel 2013. Per un po’ ho dimenticato lo sport, perché in quei momenti ti poni mille domande, ti chiedi cosa farai da grande, pensi soprattutto al senso della vita. Io, in particolare, ho avuto la fortuna di avere accanto tante persone che mi volevano bene”.

Com’è avvenuto l’incontro con il sitting volley?
“In Italia il sitting volley è stato riconosciuto come sport nel 2013, l’anno in cui mi sono ammalata. Io ne ho scoperto l’esistenza alla fine del 2104 e, qualche settimana dopo, a gennaio 2015, con l’aiuto di amici, allenatori e colleghi sportivi ho fondato la prima squadra di sitting volley in Veneto. Da allora sto cercando di promuovere la disciplina in tutti i modi possibili e, forse, è anche per questo che ne sono diventata ambasciatrice. Mi piacerebbe che tutti avessero l’opportunità di continuare a praticare lo sport che praticavano prima dell’incidente o della malattia che ha causato la disabilità”.

Cosa è successo dopo la costituzione della squadra?
“Si sono subito iscritti giovani provenienti da tutto il territorio e, poco dopo, sono stata contattata dalla Fipav, che mi ha convocata in Nazionale”.

Sarà stato un momento bellissimo.
“Sì, non ci potevo credere, ero al culmine della gioia, pensavo che si trattasse di uno scherzo. Anch’io, come tanti ragazzi, guardavo la Nazionale in televisione, considerandola qualcosa di irraggiungibile. Non avrei mai detto che quello che mi era stato tolto, un giorno mi sarebbe stato restituito in un altro modo e, soprattutto, in un modo così speciale. Perché non si tratta solo di indossare la maglia azzurra, è il contesto che conta: ho conosciuto persone meravigliose, ho avuto la possibilità di girare l’Italia e di andare all’estero, ho incontrato tanti studenti provenienti da tutte le scuole. A livello agonistico ci sono state vittorie e sconfitte in questi anni, ma attribuisco molta più importanza ai luoghi e alle persone che ho avuto modo di conoscere”.

Sta pensando a qualche incontro in particolare?
“Potrei fare l’esempio di Rotonda, un paesino meraviglioso nel Parco del Pollino, fatto di persone uniche. Noi dormivamo in un piccolo bed and breakfast, a gestione familiare, la cui proprietaria ci trattava veramente come una mamma. La mattina ci proponeva mille cose per colazione, quando tornavamo dall’allenamento, il pomeriggio, ci preparava il caffè. Ci faceva sentire davvero a casa. Quando parti, ti manca sempre un po’ la famiglia, perciò è bello avere intorno persone che ti sanno stare vicino con semplicità. Persone che non ti chiedono perché sei in carrozzina, ma ti chiedono semplicemente come stai, che è la domanda più importante che qualcuno ti possa fare”.

E lei come sta in questo momento?
“Sto veramente bene, mi ritegno fortunata: ho fatto esperienze incredibili, ho un bimbo meraviglioso, un lavoro alla direzione amministrativa territoriale della Asl che mi piace un sacco e che mi fa sentire utile ogni giorno. E da ultimo ho fatto la follia di iscrivermi di nuovo all’università”.

Quali sono i suoi progetti lavorativi per il futuro?
“Lo scorso ottobre mi sono laureata in Diritto dell’economia con una tesi sull’inclusione scolastica e poi ho fatto la follia di iscrivermi alla facoltà di Giurisprudenza. Mi piacerebbe continuare a fare quello che faccio, possibilmente con un ruolo di maggiore responsabilità, per poter dare un contributo personale, magari cercando di realizzare progetti ad hoc per le persone con disabilità”.

E la maternità?
“Ho desiderato tanto Francesco, per noi è stato un grande dono. Spesso le persone si chiedono perché una donna con disabilità desideri diventare madre, ma io ho avuto la fortuna di conoscere altre ragazze in carrozzina o con altri tipi di disabilità che hanno cercato e ottenuto la maternità prima di me. Sapere che altre donne ci sono riuscite ti dà la forza di credere che, se ce l’hanno fatta loro, ce la potrai fare anche tu. A quelle donne che vorrebbero una gravidanza, ma che pensano di non essere in grado di portarla avanti per via della loro disabilità, vorrei consigliare di vedere come hanno fatto le altre e di ispirarsi alle tante donne che non hanno visto un limite nel fatto di essere disabili”.

Quali sono gli obiettivi per il futuro immediato?
“Voglio continuare a fare quello che sto facendo, compreso seguire il progetto realizzato dall’Università di Padova per dare agli studenti disabili la possibilità di praticare una disciplina sportiva paralimpica. L’Università di Padova, per chi non lo sapesse, è stata la prima università d’Italia a creare una squadra di sitting volley, con l’idea di estendere poi il proprio impegno anche alle altre discipline paralimpiche. Questo significa non solo dare la possibilità di praticare una disciplina sportiva a chi ha una disabilità, ma anche di raggiungere tanti studenti fuori sede. E poi vuol dire far comprendere a tutti che non c’è una effettiva differenza tra persone con e senza disabilità. Non bisogna mai guardare prima alla carrozzina e poi alla persona”.

È un concetto molto importante.
“Sì, bisognerebbe cominciare a diffondere questo messaggio a partire dalle scuole: la disabilità è un limite solo nel momento in cui la società non provvede a rimuovere gli ostacoli che possono impedire alle persone di fare le stesse cose che fanno gli altri”.

(L’intervista è tratta dal numero di marzo di SuperAbile INAIL, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)