Coronavirus. «La ricerca ha bisogno dei suoi tempi» spiega Antonella Viola della Città della speranza

«Il nostro Paese sta attraversando la fase acuta dell'emergenza» Ha detto il presidente Conte annunciando la proroga delle limitazioni fino al 13 aprile.  Ma la ricerca a che punto è? Cosa sappimo: del coronavirus, della possibilità di diventare immuni e della probabilità di una seconda epidemia?

Coronavirus. «La ricerca ha bisogno dei suoi tempi» spiega Antonella Viola della Città della speranza

È del primo aprile l’annuncio del presidente del consiglio, Giuseppe Conte, della proroga fino al prossimo 13 aprile delle misure fin qui adottate per il contenimento del contagio epidemiologico da Covid-19.

«Il nostro Paese sta attraversando la fase acuta dell'emergenza – ha detto il presidente Conte – non siamo nella condizione, lo voglio chiarire, di poter allentare le misure restrittive che abbiamo disposto. Non siamo nella condizione di poter alleviare i disagi e di risparmiare i sacrifici a cui si è sottoposti».

Quindi almeno fino a Pasquetta sono previste limitazioni sia della circolazione delle persone che delle attività produttive oltre alla chiusura delle scuole di ogni ordine e grado e della sospensione dell’attività, della limitazione dell’ingresso o della chiusura di strutture e spazi aperti al pubblico come: i luoghi destinati al culto o i musei, i cinema, i teatri e gli impianti sportivi. Tutto invariato, insomma, nella speranza che la ormai nota curva epidemiologica ci catapulti in scenari futuri migliori.

«Siamo sempre in stretto contatto con gli esperti del Comitato tecnico-scientifico – rassicura Conte – i quali ci rappresentano che si iniziano a vedere gli effetti positivi delle misure restrittive sin qui adottate. Ma, ripeto, non siamo ancora nella condizione di potere iniziare ad abbracciare una prospettiva diversa».

E intanto si susseguono ipotesi sulla fase 2 della pandemia, quella che Conte ha definito «della parziale riapertura»: dalla possibilità di riaprire per prime le attività che possono garantire il distanziamento minimo, all’ipotesi di isolare i positivi e gli asintomatici fino all’obbligo dell'uso delle mascherine. Ma ogni ipotesi è condizionata alle evidenze scientifiche e ai relativi passi in avanti della ricerca perché un eventuale farmaco o, addirittura, un vaccino potrebbero capovolgere ogni previsione.

Allora la domanda è: a che punto è la ricerca?

«La ricerca sta correndo molto in questo momento – spiega Antonella Viola, direttrice scientifica dell’Istituto di Ricerca pediatrica Città della Speranza e professore ordinario di Patologia generale presso il dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova – Si sta lavorando su tutti i fronti: farmaci antivirali, farmaci che agiscono sulle conseguenze dell’infezione, vaccini. Stiamo tutti correndo ma la ricerca ha bisogno dei suoi tempi per la verifica dei risultati e per l’organizzazione degli studi clinici in modo corretto».

La direttrice dell’Istituto di ricerca pediatrica prosegue riflettendo sull’uso che l’informazione fa dei risultati della ricerca spiegando che sta assistendo a un fenomeno preoccupante: data la gravità della situazione «molti lavori – spiega – vengono messi in rete senza il processo di revisione da parte di altri colleghi che è invece il requisito fondamentale per poter pubblicare un lavoro scientifico. Questo corretto perchè accorcia i tempi e permette a tutti di vedere subito dei risultati potenzialmente interessanti, ma purtroppo i giornalisti accedono a questi siti di pubblicazione dei dati e rilanciano le informazioni prima che siano verificate. È importante, invece, che si rispettino i tempi della scienza, anche in questo momento perché altrimenti non si riesce a capire cosa è vero e cosa no».

Cosa sappiamo oggi del coronavirus?

A oggi gli studi ci dicono che nel virus non ci sono state mutazioni rilevanti «che è una buona notizia per il vaccino – fa notare la professoressa – sappiamo meglio come entra nelle nostre cellule, quindi possiamo pensare a disegnare dei farmaci che ne blocchino l’accesso, e abbiamo capito meglio l’evoluzione della malattia nella popolazione. Ci sono al momento molti vaccini che vengono analizzati e, tra i tanti, speriamo davvero che ce ne sarà qualcuno in grado di proteggere la popolazione».

La risposta immunitaria

Altro tema di attualità è capire se il virus attiva una risposta immunitaria in chi ne è stato contagiato. Il motivo dell’importanza di questo fattore è facile da comprendere soprattutto se si pensa che la fase 2 prevederà un lento percorso verso il ritorno alla vita normale e che scoprire se ci sono e quanti sono gli immuni li renderebbe parte attiva di questa fase.

«È certo – prosegue Viola – che il virus attivi una forma di risposta immunitaria. Che si possano generare anticorpi neutralizzanti sembra anche dimostrato. Il punto è: quanto dura questa produzione di anticorpi? Perché è verosimile che la produzione di anticorpi neutralizzanti dipenda dall’entità dell’infezione, così come il loro mantenimento nel tempo. È quindi possibile che non ci sia una regola univoca che vale per tutti ma che potremmo avere persone che sono state contagiate ma hanno una scarsa immunità, cioè un titolo anticorpale che non persiste nel tempo, e altre in cui, invece, si instaura una immunità più duratura. Ad oggi, noi questo ancora non lo sappiamo e quindi gli studi sierologici sono molto importanti per capirlo. Ma da questo a parlare di “patente di immunità” ce ne vuole».

Un altro problema sembra essere quello dei test

«La validazione dei test – spiega – non è completa perché ci sono diversi prodotti sul mercato e c’è un problema di “falsi positivi” cioè persone che sembrano aver avuto l’infezione ma in realtà potrebbero aver avuto infezioni da altri coronavirus, che ricordiamo sono diffusi nell’ambiente in cui viviamo e causano raffreddori stagionali. È fondamentale che si scelga il test migliore e che la scelta non sia locale, cioè lasciata alle regioni, ma che sia una scelta nazionale, se non europea. Che senso avrebbe un test che vale in Veneto ma non in Trentino? È assurdo».

Intanto mentre l’Europa affronta la prima fase della pandemia le notizie che arrivano dalla Cina non sono rassicuranti se si pensa che lo scorso 3 aprile la Cina ha imposto la zona rossa nella contea di Jia e ora circa 600mila persone sono nuovamente bloccate in casa.

«Il rischio della seconda ondata è altissimo – spiega – ed è facile da capire perché: secondo i dati ufficiali oggi abbiamo avuto 120 mila contagiati, quindi circa lo 0,2 per cento della popolazione italiana. I dati probabilmente non sono corretti e se quindi pensiamo di triplicarli, siamo ancora abbondantemente sotto l’1 per cento della popolazione. Se anche quindi ci fosse lo sviluppo di una immunità a lungo termine per tutti, cosa che non sappiamo, resterebbe il 99 per cento della popolazione suscettibile all’infezione. Se il virus quindi resta in circolo, appena si allentano le misure restrittive c’è il rischio di ripartire».

Cosa fare quindi?

«Al momento – prosegue la professoressa – bisogna uscire da questo terribile incubo che alcune regioni italiane stanno ancora vivendo. Poi, quando la situazione sarà tranquilla, bisognerà capire come agire: penso che si dovrà riaprire le attività ma dovremo farlo in modi nuovi, diversi. Dovremo tutti imparare a vivere in modo diverso finché non sarà disponibile un vaccino sicuro per tutta la popolazione. Sarà necessario continuare a tenere monitorata la situazione, a identificare subito i positivi e a isolarli, a identificare i loro contatti stretti. Insomma dovremo evitare che si verifichi nuovamente quanto accaduto in Lombardia».

Il Veneto fin da subito sembra aver seguito una strategia di contenimento diversa dal resto d’Italia, si pensi a quanto accaduto con Vo’ Euganeo diventato caso di studio. Ma si può veramente parlare di modello Veneto che ha funzionato meglio di altri?

«Non so se il Veneto si sia comportata meglio di altre regioni e francamente non è questo il punto: le situazioni sono state diverse da regione a regione e certamente tutti hanno fatto del loro meglio per arginare la situazione. Posso solo dire che noi abbiamo avuto la fortuna di avere uno scienziato come il prof. Andrea Crisanti che ha capito da subito la gravità della situazione, anche quando altri colleghi parlavano di una banale influenza. E poi una eccezionale squadra di medici».

Già, i medici e tutta la sanità pubblica che improvvisamente ci siamo accorti essere una parte fondamentale del nostro vivere su questa terra. Tutti noi auspichiamo che dopo questa emergenza la sanità pubblica sia finanziata in maniera adeguata come forse troppo spesso in passato non è stato fatto.

«Si assolutamente - dice Viola - ci stiamo rendendo conto di cosa significhi vivere in un mondo in cui la ricerca e la sanità fanno fatica. Oggi i virologi sono delle superstar ma quanti fondi vengono destinati allo studio delle malattie infettive nel nostro paese? Pochissimi. E come spiego da anni ai miei studenti di medicina, il problema del futuro saranno le infezioni e le pandemie. Non ce lo dimentichiamo e facciamo in modo che la ricerca e la sanità siano pronte per le nuove sfide».

Cosa servirebbe subito alla ricerca?

«Aboliamo da subito l’Iva sulla ricerca scientifica - conclude Antonella Viola - è facile e immediato e mai come oggi urgente».

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