Internati militari. «Abbiamo perdonato, ma non dimentichiamo»

Internati militari C’è anche Antonio Ferrarese di Montemerlo tra i circa 630 mila italiani che, dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, viene deportato in uno dei campi di prigionia tedeschi. La sua testimoniaza è custodita al Museo nazionale dell’internamento di Padova

Internati militari. «Abbiamo perdonato, ma non dimentichiamo»

«Non preoccupatevi per me ma abbiate cura di voi»; «se riuscite, mandatemi qualcosa da mangiare, per scaldarmi e se possibile un rosario, però non privatevi delle vostre cose, pensate a voi»; «pregate per me, io lo farò per voi»; «io sto bene, abbastanza bene, grazie per quello che mi avete mandato»; «manterrò sempre la mia decisione di non adesione alla Repubblica sociale italiana, sono fermo in questo». Sono solo alcuni dei pensieri scritti da Antonio Ferrarese, originario di Montemerlo (comune di Cervarese Santa Croce, provincia di  Padova), contenuti nelle ventidue lettere spedite ai suoi familiari: la prima è datata 2 ottobre 1943, l’ultima è del 26 gennaio 1945. Antonio è uno dei circa 630 mila militari italiani che, dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943 – di cui ricorre l’80° – (un atto che porta l’Italia a disimpegnarsi dall’alleanza con la Germania nazista), viene deportato in uno dei campi di prigionia tedeschi sino alla resa del Terzo Reich, a maggio 1945. Questi militari vengono privati della loro libertà per il rifiuto di collaborare prima con le formazioni tedesche della Wehrmacht (le forze armate tedesche) e successivamente con la Repubblica sociale italiana (Rsi), anche conosciuta come Repubblica di Salò, guidata da Mussolini. Di questi, circa 30 mila provengono da Padova e provincia e ne muoiono nei lager 1.110. Del totale, circa 50 mila perdono la vita in quei campi di prigionia. Le autorità tedesche li chiamano Internati militari italiani (Imi) per distinguerli dai prigionieri di guerra. Le lettere scritte da Antonio Ferrarese, con quello che racconta successivamente alla sua liberazione, costituiscono un patrimonio di conoscenza e memoria di quel periodo così tragico per l’umanità. Il messaggio centrale dei suoi scritti e del libro che raccoglie le sue memorie dal titolo Sarò forte (Tracciati editore, 2022) scritto dal figlio Giovanni, è l’importanza di non dimenticare quei fatti e al contempo il non odiare chi è stato carnefice, arrivando a perdonarlo. «Lo ripeteva spesso – ricorda il figlio Giovanni Ferrarese – “Non abbiamo odiato chi ci ha considerato dei numeri, chi ha voluto farci vivere e diventare come le bestie. Noi siamo rimasti uomini. Abbiamo perdonato i nostri aguzzini ma non dobbiamo dimenticare”». La fede ha caratterizzato la vita e la prigionia di Antonio: gli ha consentito, insieme alla vicinanza della famiglia, di superare quel tempo così difficile.

Quella di Antonio Ferrarese è solo una delle tante testimonianze scritte rimaste: sono custodite nel Museo nazionale dell’internamento di Padova, gestito dall’Associazione nazionale ex internati (Anei), che si trova a fianco del Tempio nazionale dell’internato ignoto, in zona Terranegra. «Qui abbiamo una parte dei diari pubblicati – spiega Lucia Rampazzo, vicepresidente della Federazione provinciale dell’Anei di Padova – Vengono portati dai parenti degli internati presso il Museo, affinché siano custoditi: costituiscono un patrimonio storico inestimabile. Di diari di internati italiani ne abbiamo parecchi, sia battuti a macchina o scritti a penna». Per lo storico Antonio Varsori dell’Università di Padova, la vicenda accertata in cui collocare gli internati è segnata dal fatto che «i tedeschi partono dal presupposto che l’Italia, con il re Vittorio Emanuele III e il capo del governo Badoglio, con l’Armistizio tradisce l’alleato. Da quel momento gli angloamericani non sono più nemici. Con ciò i militari italiani non meritano di essere trattati come normali prigionieri di guerra, sulla base delle convenzioni internazionali che garantiscono certi diritti. Questi soldati subiscono le conseguenze del loro essere fedeli al governo legittimo, quello del re: soffrono privazioni di ogni tipo come la scarsità di cibo e nessuna cura, lavori forzati nelle fabbriche del Reich in condizioni difficilissime». Un’altra importante ricorrenza intreccia le vicende storiche sopra citate: la comunità parrocchiale di Terranegra in Padova ricorda i settant’anni dall’arrivo delle spoglie dell’internato ignoto, il 5 settembre 1953. In quell’anno, da un cimitero di Colonia venne prelevata una salma anonima di un soldato italiano che venne sepolto in quello che diventerà due anni dopo, per volontà dell’allora parroco don Giovanni Fortin (che nel 1943 viene internato nel  campo di concentramento di Dachau e poi liberato nel 1945) il Tempio nazionale dell’Internato ignoto. Questo luogo sorge per ricordare tutti gli italiani internati nei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale. Per don Fabio Artusi, parroco di San Gaetano Thiene in Terranegra e rettore del Tempio nazionale dell’internato ignoto, la ricorrenza dell’Armistizio e il ricordo delle spoglie dell’internato ignoto «ci muovono a tenere viva la memoria di chi ha sofferto ingiustizie nella triste esperienza dell’internamento. Questa memoria dovrebbe portarci a dire convintamente “mai più”, aprendoci oggi a vie di pace e di perdono».

1.100 gli Internati militari padovani morti nei lager
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Gli Internati militari italiani (Imi) furono circa 630 mila e vennero deportati nel territorio della Germania nei giorni successivi alla proclamazione dell’Armistizio dell’Italia, l’8 settembre 1943, sino alla resa tedesca, a maggio 1945. Di questi, circa 50 mila muoiono nei campi di prigionia, gli altri fanno ritorno a casa. Sono 1.110 i padovani deceduti nei lager tedeschi.

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