Persone narrate con le scarpe. La mostra "Camminamente"

Fino al 15 luglio resta aperta nel chiostro del Generale in basilica del Santo la mostra "Camminamente" di Antonio Gregolin. Le scarpe raccontano le idee e le storie di coloro che le hanno calzate: sportivi, pellegrini, soldati, profughi, artisti... tutti in cerca del loro cammino di fuga, di salvezza, di felicità.

Persone narrate con le scarpe. La mostra "Camminamente"

Non una mostra di scarpe, ma delle idee e delle storie di cui le scarpe sono portatrici:  “Camminamente”, la mostra sui camminatori allestita da Antonio Gregolin prima ad Assisi e ora nel Chiostro del generale nella basilica del Santo, si snoda lungo un itinerario di vecchi e nuovi scarponi, sandali e ciabatte, pedule da deserto e scarpette di vernice. Ma la curiosità verso cui è guidato il visitatore non riguarda tanto l’oggetto in sé, a volte ipertecnologico ma più spesso comunissimo, consunto, sdrucito. Si rivolge piuttosto alla persona, anzi al “personaggio” che l’ha calzato e alle ragioni che l’hanno mosso nel suo cammino. Sia esso uno sportivo “estremo”, un recordman da Guinness dei primati, un pellegrino sulle antiche e nuove vie, un amante dell’ecologia, un soldato in trincea o in ritirata, una donna in fuga. Le scarpe che ha calzato per un tratto significativo della sua vita sono la sua “firma”, dietro la quale si legge la testimonianza che ha lasciato impressa al suolo come le impronte fossilizzate dei primi uomini, scoperte nel fango pietrificato della Tanzania. L’artista Antonio Vicentin le ha composte in un bassorilievo in ceramica, insieme ad altre orme indistinte e colorate, quelle che ancora deve lasciare  il “camminatore” che verrà.

Le scarpe quindi come tentativo d’immedesimazione e di comprensione, seguendo la saggezza dei nativi d’America secondo i quali per giudicare una persona bisognava prima camminare per tre lune nei suoi mocassini. E proprio un paio di mocassini apre la rassegna, di cuoio morbido, ornati da perline di origine veneta: dal Seicento infatti i fregi in beadwork erano fatti col vetro di Murano. Un’altra citazione etnica iniziale è quella delle ciocie, i calzari degli antichi pastori appenninici che aprivano sentieri da percorrere con il bestiame in cerca di nuovi pascoli, e che hanno dato il nome a un territorio italiano, la Ciociaria. Da tenere a mente, visto che l’Italia candida all’Unesco la transumanza come patrimonio culturale dell’umanità. D’altra parte il nostro futuro può camminare sicuro solo sulle solide, collaudate tomaie del passato, come ben simboleggiano le vecchie sgalmare che Gregolin ha montato su suole fatte di circuiti di computer.

E si comincia con i virtuosi del cammino, orizzontale e verticale. La sezione “Scarpe di sport e passione” si apre con Jacques Beliveau, il canadese che nel 2013 ha completato il giro del mondo a piedi, 76.600 chilometri percorsi in dieci anni come fuga dalla crisi esistenziale, percorso terapeutico di rinascita dopo il fallimento. In mostra ci sono le sue 38 paia di scarpe (su 49), quelle con cui ha percorso le montagne di India, Nepal e Cina nel 2007.

Sullo stesso “filone”, ma con percorsi esistenziali diversi, ci portano le scarpe di Carla Perotti, la donna dei grandi deserti, che ha attraversato in solitaria i luoghi più inospitali della terra, e il tecnologico scarpone (fatto di tre scarpe una dentro l’altra) di Simone Moro che ha aperto una nuova via sull’Everest. Uno solo perché l’altro se l’è tenuto, per il suo valore affettivo.

L’affetto è importante. C’è anche una storia d’amore appesa alle scarpe in mostra: Nives Meroi e Romano Benet hanno raggiunto l’anno scorso il record della prima coppia ad aver scalato tutti i 14 “Ottomila” della terra, senza bombole, portatori e corde fisse. Nel 2009, mentre stavano scalando il Kangchenjunga, lui dovette rinunciare alla salita per affrontare una grave malattia; lei rinunciò a essere la prima donna degli Ottomila per stargli accanto.

A questo punto bisogna dare conto di alcune “non scarpe”.  Il primo caso è quello di Tom Perry, alias Antonio Perini, vicentino, che ha disceso a piedi nudi i più grandi vulcani della terra: non avendo scarpe c’è il calco dei suoi piedi. Il secondo è quello di Andrea Sacchet, che è giunto a piedi da Berlino a Capo Nord: le sue scarpe sono sparite il giorno prima dell’apertura della mostra: «È normale – ha commentato qualcuno – che le scarpe talvolta tornino a fare le scarpe».

Il secondo capitolo della mostra racconta storie di scarpe e di fede, quelle dei pellegrini che seguono il richiamo delle stelle. In testa i tre re magi, che non erano tre e non erano re, ma che hanno lasciato la loro vita per seguire una cometa. Le scarpe in mostra sono quelle del presepio napoletano. E subito a fianco ci sono i bordoni, simbolo più vistoso del pellegrinaggio, e i sandali francescani. Anche se i primi seguaci di Francesco usavano zoccoli, non sandali di cuoio, che sono entrati nei conventi nel Cinquecento, soprattutto con i Cappuccini.

Le foto di Giorgio Boato

Il più significativo di questi missionari francescani appiedati è sicuramente il beato Odorico da Pordenone, che nel 1318 parte da Venezia e in dieci anni arriverà a Khambaliq, l’attuale Pechino. Tornato in Italia con la richiesta di cinquanta missionari, avanzata dal Gran Khan, non riuscì a raggiungere Avignone e si fermò a Padova, dove il ministro provinciale gli ordinò di dettare le sue memorie a Guglielmo da Solagna.

Dalla fede furono mosse anche un altro povero paio di scarpe, quelle del cappuccino padre Pietro Larini, scomparso di recente, che in 35 anni ricostruì un convento in rovina sui Sibillini, separato dal mondo da cinque chilometri di sentiero inagibile alle auto. Ma ci sono anche le scarpe di Emma Morosini, 92 anni, che cammina da quando ne aveva 64 in onore della Madonna. E quelle di Giannino Scanferla, il pellegrino che ha raccontato il Cammino di Sant’Antonio, 400 chilometri da Padova alla Verna. Fede e passione ambientale si coniugano in Nadia Gonella della Focsiv e in Laura Govoni, l’artista ferrarese che ha espresso il messaggio dell’enciclica Laudato si' con 1.500 scarpe poste a spirale nella parte centrale del chiostro.

La terza sezione della mostra è dedicata alla “Guerra delle scarpe”, alla ricostruzione dell’ultimo secolo con le scarpe che hanno salvato la vita: ai soldati italiani e austriaci della Grande guerra, agli alpini della ritirata di Russia e ai prigionieri dei lager, ai profughi giuliano-dalmati e alle donne di Sarajevo, fino alle scarpe lasciate sulla spiaggia di Lampedusa dai profughi d’oggi. 

Ma la mostra vuole concludersi con una nota di ottimismo, affidato all’arte. Quella sognatrice di Emilio Salgari, che ha viaggiato per tutto il mondo senza mai muoversi dal suo studio. Quella evocatrice della scultura di Toni Venzo. Quella lucida di Marco Paolini, che alle scarpe dell’attore preferisce le pantofole domestiche del “ritorno a casa”.

Infine una piccola bacheca ospita una rapida rassegna storica di scarpette da bambino: «Eccoci alla meta – commenta Antonio Gregolin, il curatore, figlio di calzolaio – Un lungo percorso, tanti stili, tante idee che rispondono tutte a un principio, quello di camminare verso la felicità. E la troviamo in un cassetto remoto della nostra coscienza, della nostra psiche, dove conserviamo il ricordo delle prime scarpine che ci hanno fatto sentire grandi, quelle che abbiamo indossato per imboccare la nostra strada».

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