V Domenica di Pasqua *Domenica 2 maggio 2015

Giovanni 15, 1-8

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Tramutare cose acerbe in frutti buoni

Mi viene in mente un’anziana signora che molti anni fa andavo a visitare per portarle la comunione; ammalata molto grave di diabete, viveva senza quasi mai uscire dal suo piccolo appartamento, posto in un grande condominio di edilizia popolare. Avendo subito progressive amputazioni ai piedi, viveva seduta in carrozzina e assistita da una badante. Durante una di queste mie visite avevo notato che sul tavolo era posto un centrino, diverso dal fazzoletto bianco che abitualmente usava per accogliere la teca della comunione. Chiesi se l’avesse fatto con le sue mani e lei annuì con misurata compiacenza, e ai miei complimenti rispose dicendo: «Prenda quella borsetta di nylon, per favore» e da essa tirò fuori dei piccoli capolavori di abilità, finezza e precisione, veri lavori di artigianato certosino. «Ne ho regalati tanti ai miei nipoti e alle figlie delle mie amiche…» mi diceva quasi pensando ad alta voce. «Complimenti davvero. Io non saprei nemmeno come iniziare…» dissi. «Nemmeno io lo sapevo, ma da quando non posso più camminare ho provato e riprovato e pian piano ho imparato».

Durante una gita parrocchiale di parecchi anni fa nelle bellissime terre campane, in una delle tappe del percorso visitammo un laboratorio artigianale di cammei a Capodimonte. Durante le spiegazioni della guida turistica, mi colpì il modo con cui un signore seduto alla sua postazione di lavoro maneggiava gli attrezzi di lavoro, rimanendo a occhi bassi, concentrato, come se il nostro gruppo fosse trasparente e continuando a incidere con il bulino un elegante, finissimo e bianco profilo di giovane donna. Era pressoché impossibile non notare l’armonia della piccola opera a cui lavorava: erano ben distinte le pupille degli occhi, la carnosità delle labbra, gli orecchini, i capelli intrecciati e annodati con un nastro… Ero incantato nell’osservare la maestria dell’incisore e come anche il suo pollice si fosse sformato a furia di usare il bulino, fino a sembrare una piccola cipolla. «Da quanti anni fa questo lavoro?» gli chiesi con cortesia, e lui mi rispose: «Da 45 anni». 

Una domenica, non qui a San Francesco ma in un’altra parrocchia, mentre sto per chiudere la chiesa, saluto un gruppetto di signore fermatesi per godersi una serena chiacchiera domenicale. «Don Massimo, questa signora domenica prossima festeggia quarant’anni di matrimonio!».
Interviene subito un’altra che con fare scherzoso ribatte: «Quarant’anni? 

Ma dai! E sei ancora assieme?». L’interessata risponde: «E sul più bello che ho imparato a volergli bene, vuoi che lo lasci proprio ora?».
I rapporti prima o poi arrugginiscono, si fanno faticosi; il lavoro non porta più soddisfazioni; i figli sembrano non accogliere il bene loro donato e cercano fuori casa punti di riferimento; le parrocchie guardano con distrazione e sufficienza alle iniziative proposte; le istituzioni sembrano nemiche o comunque poco attente al vissuto; qualcuno in cui si era posto fiducia, delude; le amicizie con l’andar degli anni si diradano e perdono di intensità; i governanti che si erano presentati come garanti del cambiamento da tutti invocato deludono più e peggio di chi li ha preceduti…

Quante volte si pensa che scappare sia la soluzione alla frustrazione che la fatica prima o poi fa provare a tutti?
Quando si è ragazzi si vorrebbe crescere e quando si è cresciuti si vorrebbe tornare ragazzi. Quando si ha un’età se ne vorrebbe un’altra e quando questa si è raggiunta si cerca di fuggirla.
Si è in un posto e se ne desidera un altro, si sta vivendo un’esperienza e il pensiero corre a quello che ci aspetta o a quello che si è lasciato. E così via…
È questa incapacità di “stare”, che impedisce alla mente e al cuore di imparare il linguaggio della fatica per far maturare in frutto ciò che sembra non esserci ancora.
Ripenso alla signora diabetica senza piedi, ripenso all’artigiano di Capodimonte, ripenso alla signora del 40° anniversario, a come hanno tramutato la loro fatica in bellezza. Anche il loro esempio, semplice ma pieno di esperienza e umanità vissuta, mi aiuta a capire quello che Gesù dice: «Non scappare, sta’ al tuo posto. Sta' al tuo posto e impara; non aver fretta, non fuggire dalla fatica di un’esperienza buttandoti in un’altra. Impara, taglia la pigrizia, taglia i modi che impoveriscono. Rimani, sta’ fedele al tuo posto e il frutto verrà».
Penso però, che nemmeno il solo rimanere può bastare a garantire la riuscita del frutto. A volte rimanere può somigliare a una condanna o può essere un modo per stare in schiavitù.
Ciò che aiuta il rimanere a portare frutto, ciò che tramuta la fatica in bellezza, ciò che dona alla fatica significato e la dirige al traguardo, tutto questo viene dalla forza che nasce quando si ha, si sta, si rimane accanto a qualcuno che ci vuol bene: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla».
Rimanere nel modo di fare di Gesù, nel modo di pensare di Gesù, nel modo di giudicare di Gesù, nel modo di pregare di Gesù, nel modo di capire di Gesù. L’alternativa è la fatica che diventa frustrazione.
Quanto abbiamo bisogno oggi di queste persone, esperte di vita e non di inconcludenza, di persone che come Gesù abbiano imparato a obbedire a ciò che la vita porta e propone e che, stando nell’amore, tramutino ogni cosa acerba in frutto buono.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)