XXX Domenica del Tempo ordinario *Domenica 23 ottobre 2022

Luca 18, 9-14

XXX Domenica del Tempo ordinario *Domenica 23 ottobre 2022

Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Pare che Aristotele ringraziasse ogni giorno gli dèi dell’antichità per essere nato libero e non schiavo, greco e non barbaro, uomo e non donna. È un ricordo che la lettura del brano del Vangelo mi ha fatto affiorare: non so se la cosa corrisponda alla realtà e l’ho comunque riportato per dire che tutti, anche i migliori tra noi e anche chi non ammette la cosa, abbiamo l’intima convinzione di considerarci, almeno un po’, migliori degli altri.

Succede che alcune parole, comportamenti, battute, a volte anche solo sguardi o perfino dei silenzi vadano a toccare parti della propria interiorità, quelle in cui si è più sensibili, insicuri, non del tutto “risolti” e che queste cose ci ammacchino interiormente, facendoci poi male. Se non si impara a controllare e a gestire con maturità il disagio o la sofferenza che queste cose suscitano nell’animo, si può reagire contrastando, svalutando, ridicolizzando le idee, le parole, le scelte, le proposte, i modi di vivere delle altre persone. Sono reazioni che non portano serenità e che non alleggeriscono la fatica che si prova, ma che si continuano a indossare per abitudine e per non saper come reagire in altro modo. Ci si difende facendosi spocchiosamente convinti di aver ragione e di essere, anche se solo di poco, “meglio”: meglio di altri credenti, meglio della moglie, del marito, meglio del prete della parrocchia vicina, meglio della religiosa che ci ha preceduto nel servizio, meglio delle altre mamme o degli altri papà, dei vicini di casa, di qualche altro componente della propria compagnia, del collega di lavoro, del capo, del vescovo, del papa, dei credenti di altre religioni, di chi è di un altro partito e via così…

Chi non impara a riconoscere la presenza di un po’ di verità anche nella vita e negli altri e in particolare anche di chi gli dà fastidio, di chi ritiene avversario, si ritroverà, purtroppo, accecato dall’ira e giudicherà ogni cosa in base al sospetto e al risentimento che prova in sé.

Chi ha sempre qualche motivo per brontolare, chi descrive gli altri in base ai loro difetti, chi trova sempre qualcosa da ridire su quanto e sul modo con cui vengono proposte, decise o realizzate le cose è una persona che non sarà mai contenta e soddisfatta. Una persona così è incapace di stimare qualsiasi tipo di impegno e più che cercare collaboratori o compagni o amici, cercherà obbedienti esecutori e che, una volta trovati, si riveleranno non essere mai all’altezza delle sue aspettative.

Il Vangelo dice: «Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé…». Dicono gli esperti che la stessa frase potrebbe essere tradotta in modo diverso: «Il fariseo stando in piedi verso se stesso queste cose pregava…». Ecco il rischio che tutti viviamo, nella vita e nella fede: “pregare davanti a se stessi”, fare di sé stessi la divinità di riferimento. Non è prerogativa dei “farisei” vivere questo rischio e non è prerogativa dei credenti.

Questo modo di vivere e di credere è presente in ciascuno di noi e si manifesta quando facciamo dell’esperienza personale l’unica verità, del modo di pensare l’unico criterio di giudizio, del modo personale di vivere la fede un dogma, delle proprie abitudini l’orario per scandire l’altrui ritmo di vita, dei criteri di giudizio i parametri verificatori della bontà dell’altrui vita. questo capita anche nella preghiera: non mette più Dio davanti alla vita, ma si mette la vita davanti a Dio, obbligandolo a riconoscerne la bontà.

Lo ripeto, il vizio di credersi migliori è presente in tutti: migliori perché cattolici, migliori perché credenti, migliori perché non credenti, migliori perché italiani, migliori perché veneti, migliori perché ci diamo da fare, migliori perché i nostri figli non sgarrano, migliori perché nessuno può dir niente di noi, migliori perché noi ci siamo sempre... e così via.

Quanto sono ingombranti queste persone, quanto tossica e demoniaca è questa perfezione che banalizzando e deridendo altri modi di essere, di vivere, di credere perde la coscienza di sé e impedisce alla vita di esprimere una buona diversità.

Per trovare la forza della giustificazione, per ricevere il dono di quel che ci manca per stare con forza nella vita è meglio imparare a vivere il dono dell’autenticità e ad esercitarsi nella sincerità di sé.

Meglio riconciliarsi con il proprio limite e non far finta che vada sempre tutto.

Meglio diventare consapevoli delle proprie imbarazzanti ambiguità di vita e ammettere, con umile e sorridente schiettezza, che ci si è sbagliati, che si fa fatica, che se si potesse tornare indietro si tenterebbe di rimediare alle sofferenze date e ricevute e agli sbagli vissuti…

Meglio tornare a lavarsi dicendo con sincera consapevolezza: «Ti chiedo scusa, Signore, ho sbagliato... Chiedo il dono della verità di me e della tua misericordia. Rimettimi in piedi…» e attraversare il campo della vita con passo di chi s’incammina con costanza e umiltà verso la parte migliore di sé, l’orizzonte che sempre precede, senza giudicare chi ha il passo diverso dal proprio.

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