Valentina Milluzzo e il falso problema dell'obiezione di coscienza

La vicenda ripropone il problema dell'aborto terapeutico. In caso di conflitto tra la vita della madre e la vita del feto e nell'impossibilità di salvare entrambi è da preferire una vita piuttosto di un'altra? E nel caso quale?

Valentina Milluzzo e il falso problema dell'obiezione di coscienza

Valentina Milluzzo è una donna di 32 anni che alla diciannovesima settimana di gravidanza è deceduta il 16 ottobre scorso dopo avere perso i due gemelli che aspettava. La procura di Catania ha iscritto nel registro degli indagati dodici medici del reparto di ostetricia e ginecologia dell'ospedale Cannizzaro di Catania ipotizzando il reato di omicidio colposo plurimo. L'iniziativa, ha precisato la procura, è un stato atto dovuto per poter eseguire l'autopsia dei cadaveri dopo la denuncia dei familiari nei confronto di un medico dell'ospedale che si sarebbe dichiarato obiettore di coscienza.

Dalle prime indagini non risulterebbe che il medico si sia dichiarato obiettore di coscienza. Il dato, ritenuto di una certa rilevanza dalla procura, emerge dall'analisi della cartella clinica della donna deceduta dopo diciassette giorni di ricovero per delle complicazioni alla diciannovesima settimana di gravidanza. Secondo i magistrati la ricostruzione dei familiari della vittima, che accusano il medico di non essere intervenuto in quanto obiettore, non troverebbe al momento riscontro in atti ufficiali e documentali. E in ogni caso per procedere a livello giudiziario sarebbe necessario stabilire un rapporto di causa ed effetto tra la morte dei due feti e della puerpera e la presunta, ma finora non accertata, dichiarazione di obiezione di coscienza da parte del medico chiamato in causa.

Il fatto ha diversi risvolti e solleva almeno tre interrogativi. Il primo è di carattere empirico: vi è stato o no un rapporto di causa ed effetto tra la morte dei due feti e della puerpera e l'eventuale obiezione di coscienza? Il secondo, di carattere giuridico, chiama in causa l'ospedale e mira a chiarire se la morte dei due feti e della puerpera è avvenuta o meno in conseguenza del rifiuto da parte dell'ospedale di mettere a disposizione della donna un medico non obiettore come previsto dalla legge 194 sull'interruzione volontaria della gravidanza. Il terzo, di carattere prettamente morale, ripropone il problema del cosiddetto aborto terapeutico: se in caso di conflitto tra la vita della madre e la vita del feto e nell'impossibilità di salvare entrambi sia da preferire una vita piuttosto di un'altra e nel caso quale: della madre o del figlio?

Sgombriamo anzitutto il campo dai primi due interrogativi che chiamano in causa l'obiezione di coscienza. Allo stato attuale delle indagini non vi sarebbe stata infatti alcuna obiezione di coscienza da parte del medico accusato. Non solo, ma non vi sarebbe stato nemmeno nessun obbligo da parte dell'ospedale di mettere a disposizione un medico non obiettore per il semplice fatto che non si trattava di interruzione "volontaria" di gravidanza, bensì di interruzione "obbligatoria", chiaramente prevista e dettata dalla gravità della situazione. «Escludo - ha dichiarato in tal senso il direttore sanitario dell'ospedale - che un medico possa aver detto quello che sostengono i familiari della povera ragazza morta e cioè che non voleva operare perché obiettore di coscienza. Se così fosse, io lo escludo, sarebbe gravissimo perché il caso era grave. Purtroppo nel caso di Valentina è intervenuto uno choc settico e in dodici ore la situazione è precipitata».

Sgombrato il campo dai primi due interrogativi, rimane il terzo, il più drammatico dal punto di vista morale, in quanto rimanda al cosiddetto aborto terapeutico previsto dalla legge 194, ma tuttora condannato dalla chiesa sulla base del principio che "il fine non giustifica i mezzi". Il fine buono di salvare la vita della madre - si dice - non giustifica il mezzo cattivo di "uccidere" il figlio. D'altra parte non si può e non si deve dimenticare o sottacere che se il medico non interviene la madre muore e insieme a lei anche il figlio, quanto meno nei primi mesi di vita, quando cioè il feto non è ancora vitale. Difficile che un medico si lasci convincere dal ragionamento della chiesa. Non potendo salvare entrambi egli farà tutto il possibile per salvare almeno la madre e "lasciar morire" il figlio. Ovviamente rispettando sempre la scelta della madre di rischiare o anche di perdere eventualmente la sua vita pur di salvare il figlio. Si pensi a Gianna Beretta Molla che la chiesa ha recentemente proclamato santa.

Il che non toglie però che alla base del ragionamento della chiesa si intraveda un modo di argomentare che non tiene conto delle conseguenze dell'azione. Non solo, ma non si avvale nemmeno della distinzione fondamentale tra valori morali e non morali. In effetti ci sono valori la cui realizzazione dipende dalla volontà: essere generosi o egoisti dipende solo da noi. Altri valori dipendono da fattori diversi dalla volontà: essere sano, o anche vivo, è sì un valore, ma la salute o la vita non dipende solo dalla nostra volontà. Definiamo i primi "valori morali", i secondi "valori non morali".

Il famoso principio cui si appella anche la chiesa, in base al quale "il fine non giustifica i mezzi", in sé non è né vero, né falso. È la semplice riaffermazione della necessità di evitare ogni forma di opportunismo egoistico. Ma non aiuta molto a risolvere i casi di conflitto tra valori morali e non morali. Tanto meno il caso di conflitto tra valori non morali ugualmente rilevanti in cui vengono a confliggere la vita della madre e la vita del figlio. Si pensi a gravidanze extrauterine o a diagnosi di tumore all'utero durante la gravidanza. Oggi fortunatamente è possibile, grazie ai progressi della medicina, salvare sia la vita della madre che la vita del figlio. Non sempre però e non ovunque.

Ne deriva, a partire dalle premesse illustrate, che è possibile, ed è moralmente lecito, ricorrere all'interruzione della gravidanza per salvare la vita della madre nell'impossibilità di salvare anche quella del figlio. La cui morte viene accettata come conseguenza prevista, ma non voluta. E dunque non come un male morale, bensì come un male non morale che non si è potuto evitare.

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