L'omelia del vescovo di Mantova

Il testo dell’omelia del vescovo di Mantova Roberto Busti

L'omelia del vescovo di Mantova

L’ordinazione episcopale, nella sua rarità e per la sua importanza, ci coinvolge nel riflettere meglio sul grande dono che il Signore Gesù fa alla sua Chiesa. Leggo alcune parole del Pontificale Romano: “nel Vescovo circondato dai suoi presbiteri è presente lo stesso Signore Gesù: è Cristo infatti che nel ministero del Vescovo continua a predicare il vangelo di salvezza e a santificare i credenti mediante i sacramenti della fede”. E ancora: “Episcopato è il nome di un servizio, non di un onore, poiché al Vescovo compete più il servizio che il dominare”.

Lo svolgersi dei gesti liturgici e delle parole che li accompagnano, ci aiuterà a comprendere il profondo significato degli antichi simboli . Papa Francesco, inoltre, non lascia mancare, anche a noi Vescovi, il suo insegnamento e tante esortazioni pastorali, molto puntuali e concrete.
Perciò non offrirò al novello Vescovo altre raccomandazioni: occorrerebbe ben altra esperienza e saggezza!

Ma la Parola che Dio ci offre nella liturgia odierna è sicuramente utile a tutti, pur con responsabilità ecclesiali o umane diverse: su quella ci soffermiamo.

C’è un’espressione che ricorre ben tre volte nei pochi versetti di Marco appena proclamati: “nel mio nome”. Senza dimenticare che, poco prima, Gesù ha ripetuto le stesse parole per indicare che l’accoglienza nel suo nome anche di un bambino di quelli che giocavano rumorosamente per strada, equivale all’accoglienza di lui stesso.
Non può essere, quindi, una semplice ripetizione di parole: è una chiave interpretativa, che ci permette di comprendere il senso della narrazione.
L’apostolo Giovanni racconta anzitutto il motivo del divieto posto a uno che scacciava i demoni nel suo nome: non è della cerchia di Gesù, non segue noi; in una parola, non è dei nostri: come osa?. Gesù, sorprendentemente, corregge l’interpretazione dei discepoli: nessuno – dice - può operare gesti e parole di salvezza o di guarigione nel mio nome, cioè nella potenza dello Spirito, e subito dopo testimoniare il contrario, perché lo Spirito non si contraddice.
Invece, anche il gesto più semplice e banale, come vedersi offrire un bicchiere d’acqua nel suo nome, non può cadere nel vuoto, perché lui stesso si fa garante della ricompensa.
Gesù aveva già chiarito in che cosa consiste andare dietro a lui come discepoli: se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo e il servo di tutti; come lui farà di lì a poco, lasciandosi consegnare ai nemici per offrire all’umanità, nel compimento della sua esistenza con la morte in croce, la possibilità di fare propria la sua Risurrezione. Il Vangelo però nota che i discepoli non capivano e neppure osavano chiedere spiegazioni ulteriori.

Loro! Noi siamo sicuri di comprendere bene ciò che Gesù chiede ai discepoli di ogni tempo, a me quindi, e a ciascuno di noi?
Che cioè il riconoscimento del suo vero volto (lo abbiamo posto come fine del nostro Sinodo diocesano: vogliamo vedere Gesù!), passa attraverso i volti e le situazioni le più normali, come quelle di un bambino inerme, o le più complesse, che esprimiamo con la categoria dei poveri, tra i quali i non pochi che cercano faticosamente la strada per incontrare Gesù su sentieri diversi da quelli che noi normalmente percorriamo. Perché chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me, ma anche Colui che mi ha mandato.
Il nostro posto nel Regno non dipenderà dunque dalle responsabilità o dall’importanza dei compiti che ci vengono affidati, ma dal riconoscimento del suo volto ovunque si sveli o si celi, e quindi, dalla chiamata a scoprire e partecipare il suo amore anche agli ultimi degli ultimi nella scala dell’importanza umana.
Il simbolo del bambino, oggi è diventato un po’ incerto: a volte è cercato come un diritto più che un dono, altre sembra un ingombro intollerabile e spesso una proprietà da far crescere a nostra immagine e somiglianza, invece che liberarne le qualità che lo rendono dono unico per l’umanità.
Convertirsi e diventare piccoli! Evidentemente non solo fanciulli, ma “poveri”. Cioè peccatori, tra i quali dichiariamo continuamente di essere anche noi, non so con quanta convinzione, all’inizio di ogni eucaristia; gli emarginati che contano poco o nulla o ci creano un senso di fastidio; i semplici che sono facili vittime dello scandalo; i perduti che il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare; gli oppressi a causa del debito che non riescono a pagare, perché privi di tutto, denaro e dignità; i colpevoli, che hanno bisogno di correzione e di perdono settanta volte sette; il popolo disordinato e affamato, di persone le più diverse per origine, provenienza, cultura, religione, censo, che fugge dalla propria terra e spesso dalla propria vita, sorretto soltanto da una disperata speranza! E anche chi, come Eldad e Medad, pur rimanendo nell’accampamento, non stanno nella tenda del convegno: battezzati e cresimati, ma non vanno più in chiesa!

La comunità cristiana è fatta di questi poveri: non solo di coloro che si sforzano di convertirsi, diventando piccoli secondo il Vangelo, ma anche di tutti gli altri, la cui piccolezza è di altro genere. Non c’è posto, in essa, per la presunzione, l’orgoglio, la supponenza, perché i rapporti che si intrecciano sono ispirati e regolati da un fondamentale criterio di comportamento: la misericordia, di cui l’amore stesso del Padre ci fa oggetto: “il Padre che è nei cieli non vuole che si perda neppure uno di questi piccoli” (Mt 18,14).
È un criterio che non viene da noi, ma dal Padre che misericordiosamente ci ama, ci tiene in conto uno per uno, come il pastore che conta, una per una, le sue pecorelle. A questo livello, che è il più vero e più profondo, siamo davvero tutti uguali, tutti ugualmente raggiunti e valutati dallo stesso condiscendente amore divino.
Nessun piccolo, quindi, può essere trascurato o disprezzato perché tale; né alcun grande va onorato perché è grande: se ne devono rispettare la funzione, le responsabilità, il compito, le doti, circondandoli anche di preghiera; ma il criterio del rapporto è costituito dal dato che tutti ci accomuna: essere il termine di un identico amore misericordioso di Dio.
Una comunità evangelica spende le sue energie nella comprensione, nell’accoglienza, nella promozione di tutte le persone: così diventa segno di riconciliazione, consapevole che il Padre ci ha condonato un debito enorme, e perciò dobbiamo condonarci tra noi i nostri modestissimi debiti: vi abitiamo come persone che incontrano la misericordia.
Essa non è il luogo dei puri, dei santi, dei forti; ma quello dove a tutti viene continuamente perdonato il peccato: il peccato di non essere abbastanza piccoli e misericordiosi.

Allora comprenderemo meglio le richieste, magari scomposte, di scorgere nella Chiesa il volto di Gesù, misericordia del Padre: quello sfregiato dalle ferite dell’umanità, che ancor oggi, ci permettono di comprendere i vertici dell’amore di chi si è fatto servo di tutti, inginocchiato davanti a noi per lavarci i piedi perennemente sporcati sulle strade dell’egoismo e del peccato.
Siamo persone capaci di amarci così, nel suo nome? La nostra preghiera otterrebbe tutto: qualunque cosa chiederete nel mio nome, io la farò” (Gv 14,13)!

A te, Don Claudio carissimo, l’augurio e la preghiera che possa essere un pastore in cui vedere Gesù, come lo ha descritto Papa Francesco: davanti al gregge, guida sicura e pronta ad affrontare per primo il pericolo; in mezzo, ad ascoltare e condividere dolori e gioie; e dietro per mettersi sulle spalle chi è stanco e sfiduciato.
Ma sempre nel suo, non nel nostro nome, perché – dice ancora Gesù – chi non raccoglie con me, disperde (Lc 11,23).
La Madre che Gesù ci ha donato dalla Croce e che tanto amiamo e veneriamo, ti accompagni ogni giorno a “fare ciò che lui ti dirà” (Gv 2,5).

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