Salmo 144. Questo Dio che noi invochiamo ha davvero qualche motivo per occuparsi degli uomini?

L’edificazione dei nostri figli non avviene attraverso un processo che dipende solo dalle virtù, dalle capacità e dalla volontà dei loro genitori

Salmo 144. Questo Dio che noi invochiamo ha davvero qualche motivo per occuparsi degli uomini?

La tradizione rabbinica attribuisce il salmo 144 a Davide che si accinge a combattere con il gigante Golia. Si tratta pertanto di una prova impari, che mette in evidenza l’apparente sproporzione fra la nostra forza e quella del nemico. È una circostanza che ci fa molto immedesimare perché spesso ci sentiamo così e in questi casi non è certo la lode il primo movimento interiore che nasce nel nostro cuore, quanto piuttosto la paura e il lamento. Già, quindi, immergendoci in questa dimensione di gratitudine e di fiducia orientiamo le nostre parole in un dialogo fecondo con Dio e non lasciamo che restino ripiegate su sé stesse. “Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia, mio alleato e mia fortezza, mio rifugio e mio liberatore, mio scudo in cui confido […]” (vv. 1-2). Il salmista sembra raccogliere le tante parole che nel Salterio sono state più volte utilizzate per rappresentare la forza e la vicinanza di Dio, il suo essere al nostro fianco durante la battaglia, poi, però, è come se fosse assalito da un enorme dubbio che è un po’ alla radice di tutta la nostra fede. “Signore, che cos’è l’uomo perché tu l’abbia a cuore? Il figlio dell’uomo, perché te ne dia pensiero?” (v.3). Questo Dio che noi invochiamo ha davvero qualche motivo per occuparsi degli uomini? È una domanda che ricorre più volte nella Bibbia. Ricordiamo, infatti, che è presente nel Salmo 8 dove la risposta è rassicurante e positiva perché si riconosce all’essere umano di essere il vertice della creazione: “Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8, 6-7). In questo salmo, invece, la risposta sembra antitetica: “L’uomo è come un soffio, i suoi giorni come ombra che passa” (v. 4). Seguendo una riflessione che è anche in altri libri biblici, come in Qoelet o nel libro di Giobbe, prevale un realismo molto crudo che marca con durezza l’evanescenza dell’esistenza umana. Dove possiamo trovare un punto di convergenza fra queste due istanze apparentemente così distanti? Ecco una prima risposta nei versi seguenti: “Signore, abbassa il tuo cielo e discendi, tocca i monti ed essi fumeranno” (v. 5) e ancora “Stendi dall’alto la tua mano, scampami e liberami dalle grandi acque, dalla mano degli stranieri” (v. 7). Il Dio di Israele è un Dio che si compromette, che non sta a guardare dall’alto di un’onnipotente indifferenza e fa questo per entrambi i motivi di cui sopra: l’uomo è piccolissimo al suo confronto, ma è da lui amato infinitamente perché lo ha pensato e desiderato da sempre. L’arma principale che l’uomo può sfoderare nei confronti dei nemici – che come sappiamo sono spesso tutte le nostre stesse debolezze – è proprio la fiducia che c’è un Padre che ascolta e comprende e anzi, spesso, previene le nostre domande. Tutto questo non può che suscitare gioia e stupore che si manifesta anche attraverso una delle principali prerogative dell’umanità che è appunto la gratuità della lode che si fa arte e bellezza: “O Dio, ti canterò un canto nuovo, inneggerò a te con l’arpa a dieci corde” (v. 9). Seguono alcuni versi dedicati alla condanna dei nemici, che – come tante altre volte – sono condannati per la loro mancanza di onestà e di verità nel parlare e questo ci permette di attualizzare questa preghiera in occasione di tutte le nostre relazioni. Sappiamo bene che non vi sono solo le guerre combattute con le armi che uccidono e feriscono i corpi, ma spesso i conflitti nascono quando non si riescono a leggere le parole dell’altro come quelle di un fratello, ma solo di un nemico. È l’unione della verità e della misericordia che porta frutti di pace e abbondanza di doni e questi doni diventano di tutto il popolo, di tutte le famiglie: “I nostri figli siano come piante, cresciute bene fin dalla loro giovinezza; le nostre figlie come colonne d’angolo, scolpite per adornare un palazzo” (v. 12). In queste due metafore – i figli come piante e le figlie come colonne d’angolo – possiamo scorgere un’altra grande saggezza che la tradizione biblica ci trasmette. Così come l’uomo non si salva da solo e noi cristiani crediamo che “l’abbassamento” decisivo per la nostra salvezza sia l’incarnazione di Gesù, vero uomo e vero Dio; allo stesso modo l’educazione, potremmo dire l’edificazione dei nostri figli non avviene attraverso un processo che dipende solo dalle virtù, dalle capacità e dalla volontà dei loro genitori. Si tratta di piante che assumono da tutta la Creazione, da un terreno condiviso, la linfa vitale per la loro crescita; si tratta di colonne d’angolo che sono state scelte per la loro robustezza da parte dell’architetto per eccellenza. Coloro che vengono dopo di noi non sono cloni, non sono nostre fotocopie e tanto meno oggetti di possesso, ma hanno il compito di costruire il futuro, sono investiti di una responsabilità che li rende unici e irripetibili e importanti per tutti, non solo per chi li ha generati, che è chiamato a vincere la tentazione della gelosia e di voler godere del legame con loro in esclusiva. In questa ottica di condivisione vanno letti anche i versi finali che alludono ai beni materiali che la comunità può legittimamente sperare di ricevere. Granai pieni, frutti rigogliosi, greggi numerose, la serenità per il paese (cfr. vv.13-14), ma sempre nella consapevole certezza che tutto viene dal Signore e tutto a lui deve ritornare: “Beato il popolo che possiede questi beni: beato il popolo che ha il Signore come Dio” (v.15).

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Fonte: Sir