Salmo 22. C’è una sofferenza individuale in cui è inevitabile vivere la solitudine, ma poi la speranza è contagiosa

Chi prega (la prima volta) in questo carme? É un uomo che rappresenta tutto il popolo di Israele?

Salmo 22. C’è una sofferenza individuale in cui è inevitabile vivere la solitudine, ma poi la speranza è contagiosa

Arduo commentare il Salmo 22, il cui verso iniziale è pronunciato da Gesù sulla croce; un salmo che, anche per questo motivo, è fra i più commentati in assoluto. “Eloì, eloì, Lemà, Sabactàni” “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Un grido così scandaloso sulla bocca del Messia che Marco (Mc 15,34) e Matteo (Mt 27,46) lo trascrissero in aramaico, proprio così come fu pronunciato da Gesù. Il componimento unisce tre generi letterari: una supplica individuale (vv. 1-22), e, dopo la risposta del Signore (“Tu mi hai risposto!” v. 22), un rendimento di grazie (vv. 23-27) e un inno (vv. 28-32). Così, al centro del primo libro del Salterio, quello fra i salmi 3 e 41, vi è una lamentazione che alla fine viene ascoltata. Ma chi prega (la prima volta) in questo carme? É un uomo che rappresenta tutto il popolo di Israele? Un interprete del ruolo messianico del Re Davide? O piuttosto, per le tante corrispondenze, il servo sofferente del profeta Isaia (Is 52, 13-53,12)? Forse non è fondamentale l’identificazione, quanto il fatto che egli si senta completamente abbandonato da Dio eppure a Lui si rivolga. Questo caratterizza sempre la preghiera ebraica e cristiana, pensiamo a Giobbe: anche nel buio più profondo non posso nega la presenza di un Dio a cui chiedere conto della sua sofferenza. Non c’è ateismo, la disperazione di non avere nessuno a cui rivolgersi, il male esiste, ma io nel mistero della libertà, posso domandare a Dio dove sia in questo dramma della mia esistenza; quale sia il suo disegno se è vero che mi ama. “Perché?”. La traduzione esatta della parola lemà sarebbe “Per quale che scopo?” e ciò, fra l’altro, aiuta a collocare ancora più profondamente nel cuore stesso di Gesù questo lamento. “Mio Dio, grido di giorno e non rispondi; di notte, e non c’è tregua per me” (v. 3). Ma a questo punto viene in soccorso la memoria del popolo: “Eppure tu sei il Santo, tu siedi in trono fra le lodi d’Israele. (v. 4) In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li liberasti; a te gridarono e furono salvati, in te confidarono e non rimasero delusi” (vv. 5-6). In questo possiamo trovare una dimensione familiare della preghiera. Come l’adagio medievale, “siamo nani sulle spalle dei giganti”, così noi credenti, possiamo confidare nella salvezza, possiamo sorreggere la fede, anche sopportando le croci, perché i nostri padri e i nostri nonni ci hanno preceduto in questo cammino di sequela fatto di smarrimento e fiducia, cadute e riprese, delusioni e speranza. La fede e l’amore non sono teorie che si apprendono sui libri, ma esperienze che nascono dall’incontro con il volto di Dio in Gesù, attraverso la testimonianza di chi l’ha conosciuto prima di noi. Ecco, perché è più tortuosa, anche se liberamente affidata alla Grazia, la scoperta di un Dio Padre se nella propria famiglia questa presenza non è percepita e raccontata. Eppure questo non ripara dalla dimensione dell’abbandono che ad ogni uomo e ad ogni donna di questo mondo, è dato di vivere almeno una volta. Come recita il salmo, ciascuno di noi può sentirsi un “verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente” (v.7) anche se sa che è stato Dio a trarlo dall’utero di sua madre e a gettarlo nel mondo (cfr. vv. 10-11). “Non stare lontano da me, perché l’angoscia è vicina e non c’è chi mi aiuti” (v. 12). Anche le immagini di animali per descrivere gli avversari (tori, leoni, cani e bufali cfr. vv. 13-14; 17; 22) se pure sono oggi lontane dalla nostra cultura per lo più “urbana” ci aiutano a capire la sproporzione che percepiamo fra la nostra forza e quella di chi ci assale. Oppure l’immagine dell’essere acqua che scorre e non rimane, o di avere tutte le ossa slogate o il cuore che si scioglie come cera nelle viscere (cfr. v. 15). Chi può dire che l’esperienza biblica non descriva nella sua verità il nostro essere un’anima in un corpo? “Arido come un coccio è il mio vigore, la mia lingua si è incollata al palato, mi deponi su polvere di morte” (v 17). Da questo verso sembra quasi che l’uomo abbia ceduto alla tentazione di credere che Dio lo ha voluto solo per poi ricondurlo alla polvere da cui è nato. “Hanno scavato (o forato) le mie mani e i miei piedi” (v 17) Si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte” (v 19), due versi che inevitabilmente ci riportano alla Passione di Gesù. “Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto” (v. 20). Ed ecco che finalmente: “Tu mi hai risposto!” (v. 22). “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore, voi suoi fedeli, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza d’Israele (vv. 23-24). Il sollievo di aver ritrovato Chi salva prorompe in un inno di gioia che di nuovo coinvolge tutta l’assemblea, ma più in generale le generazioni e quindi ancora i vincoli di parentela, le famiglie di famiglie. C’è una sofferenza individuale a cui non è sottratto nessuno e in quella è inevitabile vivere la solitudine, ma poi la speranza è contagiosa, non può rimanere qualcosa solo nostro, anzi si deve condividere e necessariamente allargare oltre ai confini di Israele e quindi – è detto anche a noi oggi – la salvezza è davvero per tutti. “Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli” (v. 28). “Ma io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore!” (vv. 29-32). Versi finali che ancora una volta possiamo immaginarci detti da un padre che tiene sulle braccia i suoi figli o a loro si rivolga quando sono in procinto di iniziare la vita adulta, magari in occasione del matrimonio. Il salmo che per eccellenza ci rivela la piena umanità di Cristo che nella sua morte di croce ha sperimentato la nostra stessa misteriosa e tragica paura di essere abbandonati dal Padre, è anche quello che ci rivela definitivamente che Dio non viene meno alla sua promessa di Salvezza e come canta Maria, la madre, “di generazione in generazione la Sua misericordia si stende su quelli che lo temono” (Lc 1,50)

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Fonte: Sir