Adorazione eucaristica. Eucaristia ed elemosina: non sono significati lontani

Significati lontani? No, perché «chi si nutre del Pane di Cristo – come evidenzia papa Francesco – non può restare indifferente dinanzi a quanti non hanno pane quotidiano»

Adorazione eucaristica. Eucaristia ed elemosina: non sono significati lontani

Eucarestia ed elemosina appaiono, all’occhio distratto, parole dai significati lontani, ma chi abita spazi di silenzio in compagnia della Parola coglie la stretta relazione tra le due realtà: «L’Eucaristia, sorgente di amore per la vita della Chiesa, è scuola di carità e di solidarietà. Chi si nutre del Pane di Cristo non può restare indifferente dinanzi a quanti non hanno pane quotidiano» (papa Francesco). Il legame viene colto dai frequentatori dell’Amore perché Eucarestia ed elemosina sono legate dall’unico grande vincolo che è l’amore.

Il Signore fa dono della sua vita per amore, così l’elemosina sgorga da un cuore amante. Il Signore nella sua vita terrena ha reso visibile l’amore del Padre verso l’umanità che lo portava ad avere compassione della folla sfinita e affamata (Mt 14,13-21, Mc 6,30-44, Lc 9,12-17, Gv 6,1-14), così prima di portare a compimento la sua esistenza terrena ha liberamente scelto di restare in mezzo a noi nella forma umile del pane e del vino (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,16-20; 1Cor 11,23-25) per continuare a nutrici della sua vita in pienezza (Gv 6,53-56) assicurandoci la sua presenza fino alla fine dei tempi (Mt 28,20).

Il cristiano, guardando al Signore e nutrendosi del suo corpo e del suo sangue, non può che “lasciarsi mangiare” dai fratelli e dalle sorelle e, ricolmo dell’Amore, non può trattenere ciò che non gli appartiene, come dice bene Basilio Magno: «Il pane che a voi sopravanza è il pane dell’affamato; la tunica appesa nel vostro armadio è la tunica di colui che è nudo; le scarpe che voi non portate sono le scarpe di chi è scalzo; il denaro che tenete nascosto è il denaro del povero; le opere di carità che voi non compite sono altrettante ingiustizie che voi commettete» e restituisce con discrezione e rispetto perché «l’amore ci darà occhi nuovi per intuire ciò di cui gli altri hanno bisogno e per venire loro incontro con creatività e generosità.

Il frutto? I doni circoleranno, perché l’amore chiama amore» (Chiara Lubich). L’elemosina fatta con amore moltiplicherà la gioia perché «c’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Sostare di fronte al grande mistero della presenza reale del Signore nell’Eucarestia fa nascere un sentimento di meraviglioso stupore che porta a inginocchiarci di fronte al fratello e alla sorella come ci si inginocchia di fronte all’Eucarestia: «Contro ogni apparenza, a disfida dei sensi che vengono meno, ecco il Cristo in un po’ di pane; in una briciola di materia creata, l’increato; l’invisibile in un attimo del visibile; l’eterno in qualche cosa che appartiene al tempo. Quando uscirò oggi dal cenacolo, il mistero, visto e adorato nell’ostia, rifulgerà ovunque: e questo povero mondo, divenuto tragicamente troppo angusto a cagione del mio materialismo, si allargherà meravigliosamente e ogni creatura prenderà le proporzioni della briciola di pane, davanti alla quale mi sono inginocchiato adorando» (don Primo Mazzolari). Proprio perché riconosco la sacralità di ogni persona, l’elemosina ha senso come risposta a un bisogno contingente ma non può essere il fine dell’azione di un cristiano, come ricordavano nel 1300 i frati francescani alla fine delle loro omelie: «L’elemosina aiuta a sopravvivere ma non a vivere perché vivere è produrre e l’elemosina non aiuta a produrre». Fare l’elemosina perché riconosco «ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie. Esigono la decisione e la capacità di trovare i percorsi efficaci che ne assicurino la reale possibilità. Qualunque impegno in tale direzione diventa un esercizio alto della carità. Perché un individuo può aiutare una persona bisognosa, ma quando si unisce ad altri per dare vita a processi sociali di fraternità e di giustizia per tutti, entra nel “campo della più vasta carità, della carità politica”» (papa Francesco in Fratelli tutti, 180). Quindi il mio impegno per l’altro deve portare a un’azione che introduca dei cambiamenti nei processi economici che escludono chi è povero e arricchiscono chi è ricco. Essere dalla parte del povero è scomodo soprattutto se ho il coraggio di denunciare le cause che producono la povertà così scriveva Hélder Câmara: «Se do il pane ai poveri, tutti mi chiamano santo; se dimostro perché i poveri non hanno pane, mi chiamano comunista e sovversivo».

Il Concilio Vaticano II, nel decreto Apostolicam actuositatem, raccomanda che «siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come dono di carità ciò è già dovuto a titolo di giustizia; si eliminino non soltanto gli effetti, ma anche le cause dei mali; l’aiuto sia regolato in tal modo che coloro i quali lo ricevono vengano a poco a poco liberati dalla dipendenza altrui e diventino sufficienti a se stessi». Se dopo aver mangiato il pane eucaristico uscendo dalla chiesa i nostri occhi sapranno vedere chi vive una situazione di vulnerabilità, il nostro cuore proverà compassione, le nostre mani si metteranno in moto per aiutarlo, la nostra intelligenza elaborerà processi d’inclusione allora e solo allora ci riconosceranno come discepoli del Signore nato, morto e risorto per ogni uomo e donna: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri» (Gv 13,35).

suor Albina Zandonà
Direttrice Cucine Economiche Popolari

Aprile

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