Come rugiada nel mondo. L'onnipotenza soave tra le pagine della Scrittura

Non c’è mai, tra le pagine della Scrittura, un’onnipotenza sfacciata. Il Figlio entra nella storia con... soavità

Come rugiada nel mondo. L'onnipotenza soave tra le pagine della Scrittura

«Veramente santo sei tu, o Padre, fonte di ogni santità. Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito, perché diventino per noi il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo». Suona così, dopo la revisione della terza edizione del Messale, l’incipit di quella che è diventata la preghiera eucaristica più consueta, dopo secoli di uso esclusivo del gloriosissimo Canone romano. La traduzione ha suscitato non poche polemiche, come spesso avviene quando si modificano formule che il popolo di Dio possiede nella memoria quasi inconscia che il rito genera. Il dissidio si concentrava sull’uso dell’espressione “rugiada”. Eppure il testo dell’editio typica di questa prex eucaristica, ispirata all’antica anafora di Ippolito Romano, recita proprio così: «Spiritus tui rore sanctifica».

Chi, non senza una punta di veleno, ha acceso la polemica lamentava la scarsa forza della poetica “rugiada”, rispetto alla versione precedente, che invocava la “potenza” dello Spirito. Si temeva di riconoscere in ciò il segno di un abbandono della fede cattolica nella presenza reale del corpo e del sangue del Signore per mezzo dell’epiclesi consacratoria. Chi si era accanito dimostrava di aver dimenticato la poesia con cui la Chiesa ha l’abitudine di pregare nel giorno del Signore Risorto. «A te il principato nel giorno della tua potenza tra santi splendori. Dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato». È il salmo 109, che ab immemorabili illumina il tramonto di ogni domenica ed è il primo che si canta nella celebrazione dei Vespri. La figliolanza evocata dalle parole del santo re di Israele è sublime profezia di quel messia, Cristo, che, sceso nel cosmo per portare la potenza di Dio, con il proprio scettro domina l’unico vero nemico, l’antico Avversario. «Dal seno dell’aurora», cioè da prima del tempo, da prima dello spazio, egli è generato dall’amore del Padre, ed è così, come rugiada, che entra nella storia degli uomini la pienezza della regalità, della messianicità, del sacerdozio. Dice il profeta: è come un agnello muto condotto al macello. E i Vangeli: è come un seme caduto in terra, come una presa di sale nella pietanza, o un frammento di lievito che fa fermentare tutta la pasta.

Di rugiada è ricolmo il grembo di Maria, che dà vita al Verbo incarnato. Eppure la delicata bellezza dell’immagine non ci invita a soffermarci, rapiti, a contemplarla, ma a riconoscere che la regalità, la messianicità e il sacerdozio di Cristo – cioè l’esercizio nel tempo della sua forza redentrice – non agiscono secondo modalità mondane. La soavità di un granellino di frumento. L’umiltà di una presa di sale, o di un po’ di lievito, o di una lampada posta sul moggio. Non sono neppure figure “etiche”, da intendere come esortazioni volitive, quasi avessimo la pretesa di darci ad azioni che modifichino uno stato di cose sbagliato. Sono piuttosto un invito a conformarci allo stile di Dio. Il salmo 109 ci fa riconoscere il modo in cui il Signore opera. Lo stile del Dio di Gesù Cristo è manifestazione della sua sostanza. La potenza di questo messia, re e sacerdote depone l’ardore del soldato. O meglio: Gesù lo è, ma con una misura che ci spiazza. Lo ripetiamo quasi smarriti, perché queste parole restano inadeguatissime, quando affermiamo con Giovanni che «Dio è Amore».

È sempre quasi indicibile la solitudine del Calvario. È sempre indicibile il silenzioso terremoto negli inferi durante la sepoltura di Gesù. È sempre spiazzante che l’unico amico vicino a lui nel momento della risurrezione sia il rumore della pietra che rotola. Le guardie sono tramortite, forse perché il Signore non voleva neppure quella testimonianza diretta: si sottrae a ogni riprova, a ogni posa tipica del potere mondano. Non c’è spazio per i trionfi, cari all’uomo – e questo ci pare incomprensibile. Perché a noi piacerebbe ostentare il fatto che lui ha ragione, che lui è la verità. Invece perfino il più grande degli eventi della storia della salvezza, il mistero pasquale, brilla nella solitudine di Dio. Il Risorto si sottrae al giudizio dell’uomo sgusciando via dalle sue mani, che vorrebbero impugnarlo per dire agli increduli: vedete? Il Figlio è inviato come rugiada sull’erba di questo campo che è il mondo. Non c’è mai, tra le pagine della Scrittura, un’onnipotenza sfacciata. Quale sublimità anche solo pensare che sia stato l’inspirare ed espirare di Dio, il “Digitus paternae dexterae”, a scrivere i dieci comandamenti sulla pietra! Un Soffio... E noi ci accostiamo, nel rito, a questo Amore. Dolcissimo per il mondo. Dolcissimo per ogni uomo. Dolcissimo soprattutto per la pecora smarrita, che il pastore non bastona ma raccoglie e pone sulle proprie spalle.

don Gianandrea Di Donna
direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia

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