Gesù, nostra sola risorsa. Liturgia: se non esiste relazione tra il Signore risorto e il nostro celebrare, le competenze saranno vacue

Quando la Chiesa si interroga sul celebrare, spesso cade in un atteggiamento per cui “bisogna che le cose siano fatte bene”. Ma le “cose fatte bene” non sono le cose di Dio. Quelle hanno un’anima. E il popolo santo di Dio se ne accorge immediatamente, sia che siamo degli sciatti, sia che siamo dei cerimonierini impettiti o dei “creativi”.

Gesù, nostra sola risorsa. Liturgia: se non esiste relazione tra il Signore risorto e il nostro celebrare, le competenze saranno vacue

 Ci chiediamo: cosa potremmo fare perché i giovani, le mamme, le nonne, le zie, gli adolescenti, i bambini vengano a messa? E abbiamo una sola risorsa: Gesù Cristo crocifisso, sepolto e risorto. Il rito, altrimenti, è ridicolo. La liturgia è una campana vuota. Le prediche sono fervori moraleggianti. La Chiesa è un’associazione di poveri illusi. Se non esiste relazione tra la certezza che il Signore è il Vivente e il nostro celebrare, le competenze o gli atteggiamenti, nella liturgia, saranno vacui. E il popolo di Dio lo percepisce. Noi povere creature abbiamo tra le mani la potenza del mondo. La speranza del mondo. La vita del mondo. Non possiamo stare a leccarci le ferite. Non abbiamo bisogno di creare algide competenze, ma discepoli del Regno dei Cieli. Versando alcune gocce d’acqua nel calice, il celebrante deve vedere il cuore del Signore trapassato e l’acqua e il sangue che sgorgano dal suo fianco trafitto. È questa adesione di fede che genera bravi liturghi, non la semplice conoscenza delle norme. È assolutamente vero che, dal punto di vista delle forze numeriche della Chiesa, tutto perde pezzi. Ma la liturgia è opera di Cristo. Il mondo spara le bombe atomiche, la gente non ha neanche il denaro per mangiare e noi giochiamo in sacrestia con gli equilibrismi e le opportunità, anziché lasciar debordare la potenza di Cristo. Non vuoi cantare il Vangelo? Leggilo. Ma si sente quando, celebrandolo, sei molle. Nel rito cristiano si dev’essere pieni di vigore. Non impettiti, ma virili sull’altare, espressione della potenza del Signore. Fermi, perché fermo è il mistero dell’offerta, è fermo il sacrificio, è fermo il Figlio dell’uomo affisso al legno della croce. Perché Stabat Mater... La prima potenza del rito è la stabilità. Le persone non sono in cerca di simpatia. Il popolo di Dio ha bisogno di vedere che la nostra stabilità – che non vuol dire essere algidi, non metterci il cuore, non avere i poveri al centro della Chiesa – è la prima metafora del senso fondamentale della liturgia. Se non ci si accorge che, celebrando l’Eucaristia, il Signore Gesù crocifisso, sepolto e risorto irrompe nella vita dei credenti, continueremo a depennare fedeli, che la nostra simpatia ha stancato. Stare dinanzi al suo agire genererà riti nobili e sobri, carichi di una potenza e di una verità che raggiungono il cuore dei fedeli proprio in ragione della stabilitas, non di una scoppiettante fantasia. Mentre si venera l’altare, al canto del Magnificat, in un Vespro della sera di Natale, in quel momento noi stiamo adorando il corpo di Gesù immolato, sepolto, glorificato, e questo è sempre uguale a se stesso. La processione d’introito è simbolo dell’ingresso del Redentore nel mondo. Attraversando l’assemblea, passiamo dentro il corpo di Cristo; infatti, in ambiente monastico, nella domenica in Palmis, mentre si canta l’antifona, la processione si ferma, ci si inginocchia e si sosta in silenzio. Poi ci si rialza e si riparte. Va bene anche il bambino con le scarpe fosforescenti, però è in grado di sapere che sta scortando il Re dei secoli appeso alla croce? È il continuo attingere al mistero che rende le nostre liturgie degne di questo nome e ci fa deporre le scaramucce tipicamente clericali. La Parola di Dio è ricca di una varietà di prospettive, ma ciò che dice la potenza del rito è il fatto che Gesù il Signore in persona, vivo e risorto, copra di baci la bocca della sua Sposa. La liturgia della Parola è amore celebrato. Mentre si raccoglie l’evangeliario dall’altare e processionalmente si sale all’ambone, il libro dei Vangeli brucia tra le mani del diacono. Perché è Gesù Cristo. L’incenso copre l’ambone come la nube il Tabor, quando Pietro, Giacomo e Giovanni crollano tramortiti. Dentro il mistero del Vangelo, io ascolto: «Amatevi come io ho amato voi» – non la predichetta. E la Carità è lui crocifisso. Prima di tutto, il Vangelo è distanza, è abisso. Poi diventa vita concreta. Ma non può cedere al funzionalismo, che ci proietta sulla predica di don X, dimentichi che il Risorto baciava le nostre labbra.

don Gianandrea Di Donna
Direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia

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