Il tempo dell’apprendere. La pandemia, con il suo tempo sospeso, ha risvegliato il dibattito sul “valore scuola”

La pandemia, con il suo tempo sospeso, ha risvegliato il dibattito sul “valore scuola”. Arrivando a suggerire anche una riforma nella scansione e durata dei cicli

Il tempo dell’apprendere. La pandemia, con il suo tempo sospeso, ha risvegliato il dibattito sul “valore scuola”

La pandemia, insieme alla dimensione inedita del tempo sospeso, ha risvegliato anche il dibattito sul “valore scuola”. Più scuola e fatta meglio viene richiesto da tutte le parti sociali coinvolte, chiamando in causa le variabili spazio- temporali e arrivando a suggerire un’ulteriore riforma dell’ordinamento scolastico anche nella scansione e durata dei cicli. Ci si è accorti in questi mesi che per vivere e imparare nella scuola una «dimensione importante è quella del tempo nei suoi molteplici sensi, come occasioni opportune per avviare specifiche attività, come adeguatezza delle attività all’età e alle diverse fasi di crescita delle bambine e dei bambini, come ritmi più o meno lenti che lascino spazio alla loro riflessione e all’impegno al comprendere » (Ajello, 2019). Quando si nomina la scuola «bisognerà ricordarsi del contadino metaforico che coltiva di nascosto e che dentro la scuola dovrebbe trovare terreno fertile. E dunque da quel contadino metaforico bisognerebbe imparare prima di tutto il tempo: l’attesa, la difesa, la dilatazione, l’interruzione, l’accelerazione» (Bajani, 2014).

Come dunque rivitalizzare la scuola? «In natura ci sono due comunità operose: le formiche che curano la vita in comune, e le api che scrutano nuovi paesaggi. […]. Formicai accoglienti per le domande dei giovani, per i migranti, per gli adulti che tornano a studiare. E favi sapienti, alimentati dalla curiosità per il nuovo mondo e dalla creatività della didattica» (Tocci, 2015). La variabile tempo ci induce a rivolgere il nostro sguardo oltre l’aula, pensando a una scuola diffusa, dove una comunità educante preparata e attenta alla crescita dei suoi cittadini si organizza come sistema formativo integrato e continuo. Quando dunque una scuola può essere considerata una buona scuola? Italo Fiorin prospetta due visioni: quella funzionalista e quella educativa che nella loro organizzazione, anche temporale, propongono risposte diverse. Infatti «la metafora dell’impresa, per quanto seducente non è l’unica disponibile. Un’altra metafora spesso utilizzata è quella della scuola comunità. È una metafora che ci sembra più convincente, non perché in contrapposizione a quella della scuola impresa, ma perché più ricca, capace di integrare le condivisibili esigenze di efficienza, efficacia, produttività, qualità dei processi... con altre, che sono irrinunciabili in prospettiva educativa: accoglienza, cooperazione, cittadinanza. La scuola intesa come comunità è di più di un’organizzazione efficiente» (Fiorin, 2016).

Cambia la qualità della vita con il conseguente valore che viene attribuito al tempo. Nel 2008 Gianfranco Zavalloni pubblicava un testo dal titolo quanto mai esplicito: La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e non violenta. Nell’introduzione scrive «Siamo nell’epoca del tempo senza attesa. Questo ha delle ripercussioni incredibili nel nostro modo di vivere. Non abbiamo più il tempo di attendere, non sappiamo partecipare a un incontro senza essere disturbati dal cellulare, vogliamo tutto e subito in tempo reale […] Sapremo ritrovare i tempi naturali?».

Giancarlo Cerini che, fino ai suoi ultimi giorni, ha coordinato le “Linee pedagogiche per il sistema integrato 0-6” e ha sempre orientato la sua ricerca e riflessione pedagogica sul tempo scuola come risposta a una domanda sociale scriveva: «Il nostro rapporto con il tempo è un invito a ripensare al rapporto con la nostra vita. L’uso discreto del tempo, l’elogio della lentezza sono quasi diventati uno stile di vita; slow contrapposto a fast rappresenta quasi una scelta ideologica […]. Nella scuola, il tempo è diventato spesso una bandiera o un manifesto pedagogico basta pensare a Lettera a una professoressa».

Le molte vicende scolastiche italiane sono state scandite dalla variabile tempo, esibita come innovazione didattica e dell’impianto curricolare. Ricordiamo il tempo pieno nella scuola elementare (1971); il tempo prolungato nella scuola media (1983). Sul piano delle politiche scolastiche e della cultura organizzativa il regolamento dell’autonomia (Dpr 275/1999) ha aperto le porte alla gestione dei tempi differenziati, intesa come capacità di autogoverno favorendo la sperimentazione, come sta avvenendo, ad esempio, anche in questi mesi nella scuola secondaria di secondo grado, con la proposta di ridurre il percorso formativo da cinque a quattro anni; o nella fascia 0-6, auspicata come sistema integrato dai documenti dell’Unione Europea, prevedendo il segmento delle sezioni “primavera” tra nido e scuola dell’infanzia. In ultima analisi, il tempo diventa l’interfaccia tra la domanda sociale dei genitori e la possibile risposta dell’istituzione educativa in termini di qualità: il tempo come variabile dell’apprendimento. Non sempre queste due esigenze si incontrano e spesso ne derivano incomprensioni e, talvolta, opposizioni. Questi temi ciclicamente diventano di attualità, ma rimane la peculiarità di un sistema scuola dove non è tanto rilevante che gli allievi imparino di più, ma che imparino di più ad imparare. E per questo ci vuole tempo.

Rinalda Montani
pedagogista

Per riflettere

Qualche psicologo lo aveva previsto. Purtroppo è quello che sta succedendo. Da qualche settimana gruppi di giovani (meglio definirli bande) si danno appuntamento al sabato pomeriggio in Prato della Valle, a Padova, per scazzottarsi a vicenda. È il bisogno di liberare a lungo una aggressività che la pandemia ha tenuto repressa per due anni. Questo aveva detto l’esperto. Ma quale morale hanno in testa questi giovani? È questo il modo di affermare la propria identità. Bisogna per forza menare qualcuno per sentirsi “qualcuno”? Alle superiori stanno arrivando classi prime con gravi problemi di disciplina dove le note vengono esibite come trofeo. Pensiamoci. (P. Z.)

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