Lo Spirito Santo e noi. Ecco cos'è e come funziona il discernimento comunitario

Discernimento comunitario. Come può, una comunità, vivere il Vangelo nel concreto? Un metodo c’è, sperimentato dagli apostoli, ma si fatica un po’

Lo Spirito Santo e noi. Ecco cos'è e come funziona il discernimento comunitario

«È parso bene, allo Spirito Santo e a noi...»: con queste parole, riportate nel capitolo 15 degli Atti degli apostoli (v. 28), gli apostoli e gli anziani comunicavano alla Chiesa di Antiochia che no, i nuovi aderenti alla fede non dovevano farsi circoncidere e rispettare i divieti alimentari della legge mosaica. È uno dei primissimi casi documentati di “discernimento comunitario”, metodo che viene tutt’oggi messo in pratica dalle comunità ecclesiali in tutto il mondo e
a tutti i livelli. E le questioni affrontate sono diverse. Nelle comunità cristiane locali sono quesiti non troppo dissimili da questi: come raggiungere ed essere di sostegno alle giovani famiglie venute ad abitare nella nostra parrocchia? Ha senso ospitare nei nostri ambienti non utilizzati persone in difficoltà economica o in fuga da una guerra? Come arricchire la nostra vita liturgica? Come ripensare la trasmissione della fede della nostra comunità? Il Sinodo diocesano che si sta celebrando si è rivelato senza alcun dubbio un’occasione straordinaria di esercizio di un tesoro ecclesiale così fondamentale, ma non così poi conosciuto. Negli orientamenti pastorali della Diocesi di Padova di qualche anno fa, per l’esattezza il 2008-09, il discernimento comunitario veniva definito «lo strumento per illuminare e accompagnare le scelte di una comunità che vive dentro la storia e vuole che la proposta di Gesù abbia rilevanza nella sua testimonianza». Don Giovanni Molon, che fa parte dell’equipe dell’Istituto San Luca (per la formazione permanente del clero) ed è direttore spirituale del Seminario di Padova – oltre che membro della Commissione di esperti nominata dal vescovo Claudio per accompagnare il Sinodo – conferma: «Il discernimento comunitario è insito nella storia della Chiesa. Non si fa su tutto, ma di fronte a una situazione e a una materia importante, tutta la comunità si impegna ad ascoltare la voce dello Spirito Santo nel concreto della storia umana, nelle pieghe della vita di ciascuno». Sebbene non sia mai del tutto sparito dai radar, negli ultimi decenni la Chiesa, e la Chiesa italiana in particolare, è tornata a insistere su questo metodo. «Il Convegno ecclesiale di Palermo, nel 1995, l’ha rimesso al centro. Papa Francesco, poi, ha indicato il discernimento come filo rosso del suo pontificato, vista anche la sua estrazione gesuitica». La stessa dimensione della sinodalità non è, in fin dei conti, che una grande operazione di discernimento comunitario, che però si esplica a tutti i livelli: «Ci sono i vescovi che discernono comunitariamente dentro il loro collegio, c’è il consiglio pastorale parrocchiale che fa discernimento nella comunità, c’è la comunità di un monastero che fa discernimento nel monastero stesso. Comunità diverse fanno discernimenti diversi su temi diversi, quelli importanti dentro la comunità». Molti documenti hanno sintetizzato il metodo che rende davvero autentica un’esperienza di discernimento comunitario. Volendo farne una sintesi estrema, questo metodo prevede, come prerequisito, la maturità delle persone che vi prendono parte e il loro radicamento nella fede e in una vita spirituale caratterizzata da una «radicale sequela Christi». Poi, il discernimento comunitario presuppone un confronto sul tema su cui si è chiamati a fare vela Parola di Dio. Gli orientamenti pastorali già citati – che a loro volta riportavano le conclusioni del convegno ecclesiale di Palermo – prevedevano quattro fasi per un discernimento all’interno di un consiglio pastorale parrocchiale: il momento della «conoscenza» dell’oggetto di cui dobbiamo parlare; il momento della «purificazione interiore» per liberare lo spazio da preconcetti, precomprensioni e tensioni; il momento dell’approfondimento e della valutazione illuminati dal Vangelo e infine il momento decisionale, che porti, insomma, a scelte concrete. Non valgono le logiche dei consigli di amministrazioni o delle assemblee politiche: «La Chiesa non è una democrazia – sottolinea don Molon – non si vota a maggioranza, ma si procede, con il discernimento, a decisioni prese insieme nella ricerca di un sentire comune e nel rispetto delle responsabilità di ciascuno». Spesso il discernimento comunitario permette alle parrocchie di affrontare questioni spinose, per cui non è facile formulare risposte precise: «Pensiamo ai problemi legati all’immigrazione, alla legalità, alle forme di ingiustizia che vediamo attorno a noi. Anche nei nostri consigli pastorali vi sono sensibilità diverse, ma non si tratta di sfide e confronti tra idee personali, quanto mettersi in ascolto dell’esperienza della Chiesa alla luce della Parola e della tradizione per cogliere, anche nelle situazioni difficili, quale sia l’invito di Dio, quale sia la scelta più coerente con il Vangelo. Si tratta di interrogarsi, attraverso gli strumenti di un’esperienza spirituale – individuale e comunitaria – e capire cosa si può fare per vivere il Vangelo nel concreto, qui e ora».

I rischi

Cosa può insegnare il discernimento comunitario che la Chiesa ha maturato alla luce del Vangelo ai mondi della politica e dell’economia? «Può insegnare – spiega don Giovanni Molon – la spinta alla ricerca di un bene comune grande che esula dalle spinte “di pancia” dell’immediato o dagli interessi di parte, e che permetta di guardare avanti, nel futuro con lungimiranza, dove il Signore ci chiama a camminare. Non si tratta solo di un’esperienza di confronto umano, ma di un incontro con lo Spirito». I rischi più grandi di ogni processo di discernimento comunitario è che rimangano solo scelte di alcuni, provocando divisioni, o, peggio ancora, che le scelte fatte restino su carta: «Il compito di discernimento comunitario è quello di tramutarsi in azioni concrete».

Discernimento comunitario: tema ostico ma affascinante

Tema ostico, anche se affascinante, quello che trattiamo nell’approfondimento di questo mese: il discernimento comunitario. È al cuore del cammino sinodale, ma resta “qualcosa” che – pur essendo stato inaugurato dagli apostoli,
quindi di strada ne ha fatta tanta – fatica a entrare come metodo per accompagnare la vita delle comunità, Questo non ci ha fermato e, pur avendo individuato con difficoltà alcune esperienze da raccontare, abbiamo costruito queste pagine. Scoprendo, in realtà, che nei racconti delle parrocchie che hanno condiviso con noi, e i lettori, il loro “fare” discernimento comunitario... c’è davvero tanta ricchezza. C’è un cammino che si compie. E come tutti i cammini è fatto di gioie e fatiche. Se volete raccontarci la vostra esperienza di discernimento comunitario, e non solo, scrivete a redazione@difesapopolo.it

Sinodo: gioie e fatiche del metodo del discernimento
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«Ho apprezzato molto la metodologia usata e credo dovremmo applicarla tutte le volte che si fanno incontri o procedimenti da cui voglia trarre delle conclusioni fruibili». «Metodo macchinoso e farraginoso, ci siamo trovati “ingabbiati” nel percorso metodologico che ha rischiato di rendere tecnicistica un’esperienza di discernimento». Sono due delle risposte date dai moderatori dei Gruppi di discernimento sinodale alla domanda: come ti è sembrato l’intero percorso metodologico del discernimento? Il Sinodo “cammina” proprio con le gambe del discernimento comunitario e fa i conti con le persone coinvolte. Nelle schede di restituzione “compilate” dai 1.200 moderatori dei Gruppi di discernimento – parrocchiali e di ambito – sono emersi numerosi aspetti positivi rispetto al metodo di lavoro, ma anche delle criticità. C’è ancora da camminare...

Il Sinodo ha “costretto” a un certo stile
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«Il discernimento comunitario? È sempre stato presente, specie nei consigli pastorali. Ma quello che ci ha insegnato il Sinodo diocesano è stato il metodo». Don Alessandro Spiezia, parroco di Vigonza e di Peraga, conferma come l’esperienza del Sinodo abbia permesso ai processi di discernimento comunitario di fare un passo in avanti. E non sui contenuti, ma sul metodo, che si manifesta elemento centrale: «Su due aspetti il Sinodo è stato centrale. Il primo è la focalizzazione del problema; prima rischiavamo di parlare di tutto e di niente, prendere in mano un milione di argomenti senza concentrarci su un punto specifico come la liturgia, l’annuncio, l’organizzazione dei beni temporali. Il secondo sono le “microscritture”, la cosa migliore del Sinodo: prima rischiavamo di disperderci in discorsi verbosissimi, mentre le microscritture ci hanno costretto a concentrarci in espressioni brevi e per questo significative». Una metodologia destinata a rafforzare le operazioni di discernimento comunitario che già si esercitano nei vari organismi di partecipazione e persino nei gruppi di lavoro di catechisti e animatori. «Sia a Vigonza che a Peraga – continua don Spiezia – è centrale il tema di come accogliere in parrocchia le giovani famiglie che qui vengono ad abitare». «Con il Sinodo, il vescovo ci ha chiesto di riflettere su questo fronte – continua il vicepresidente del consiglio pastorale di Peraga Martino Stivanello – ora siamo pronti a essere operativi, grazie a ciò che siamo riusciti a focalizzare dentro i piccoli gruppi sinodali, comprendendo quali azioni è più opportuno mettere in campo per coinvolgere le giovani famiglie». La metodologia di discernimento comunitario su cui si fonda il cammino sinodale ha fatto breccia anche a Ronchi di Casalserugo, dove i due gruppi sinodali hanno continuato a lavorare accompagnati dai moderatori. «È stato particolarmente apprezzato lo stile – racconta il parroco, don Giorgio Bozza – che permette accoglienza, riservatezza, ascolto e condivisione, senza che chi parla debba avere il timore di essere giudicato». Sono stati dunque strutturati nuovi incontri, mensili, con la stessa metodologia, destinata però ad altre «tematiche dell’oggi», in primis il confronto tra la Chiesa e le persone omosessuali. Ci si incontra tutti insieme, c’è una proposta tematica iniziale da parte del parroco, poi i gruppi si dividono e proseguono con i lavori: «Questa volta è stato il metodo ad avere bisogno di un contenuto, quando di solito avviene il contrario». Prima del Sinodo, a Ronchi di Casalserugo si ragionava già sul volto nuovo della parrocchia. E anche in questo caso il discernimento comunitario, oltre che questione di metodo, è anche questione di stile. «Se le realtà laiche lavorano per il profitto o per il bene comune, una parrocchia opera per rendere Cristo presente in mezzo a noi e cerca di trovare la strada migliore per fare questo. Altrimenti corriamo il rischio, come avverte papa Francesco, di essere solo una ong (organizzazione non governativa), e non Chiesa. Anche don Lorenzo Milani, nel testo Esperienze pastorali, lo ribadiva».

Opportunità e limiti del metodo

La vita ordinaria delle parrocchie fa emergere i limiti e le opportunità concrete che sorgono dall’applicazione pratica del discernimento comunitario. «Nella nostra riflessione – racconta don Mattia Biasiolo, parroco a Cervarese Santa Croce, Saccolongo e Montemerlo – ci siamo resi conto di quanto sia difficile fare discernimento comunitario non tanto per il metodo in sé, quanto per i tempi da dedicarvi e le tempistiche entro le quali operarlo. Negli ultimi anni, infatti, ci siamo trovati di fronte a tante decisioni da prendere al volo: non abbiamo spesso avuto il tempo di radunarci, ascoltare gli esperti, approfondire bene la situazione». Elemento positivo è la conferma del radicamento alla
fede: «Certo, ci troviamo, preghiamo, chiediamo aiuto allo Spirito Santo, ma spesso tutto si riduce a un singolo incontro. A volte si tratta anche di questioni molto pratiche: con la crisi energetica abbiamo fatto un solo incontro
per parrocchia». Questi continui passaggi frenetici nelle questioni più pratiche, di decisione in decisione, non aiutano a preparare il terreno per temi apparentemente più astratti ma forse ancora più importanti. «Anche solo accompagnare le decisioni alla preghiera ci ricorda che il nostro agire pastorale non è scollegato da questo radicamento, e che avere uno sguardo allargato su tutta la vita e le dinamiche parrocchiali aiuta molto».

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