Parrocchia: non può che essere in uscita. Il nono tema del sinodo: le parrocchie nella transizione

Il nono tema si “interroga” sul volto delle parrocchie e sulla capacità di stare nella transizione e nel processo. Condizioni per... vivere

Parrocchia: non può che essere in uscita. Il nono tema del sinodo: le parrocchie nella transizione

Tutto cambia, sempre. Ma a volte questo cambiamento diventa ancora più veloce. E il senso di smarrimento di chi vede sgretolarsi sotto i piedi tradizioni e consuetudini può essere comprensibile. Commiserarsi – e commiserare – però non basta. E rimpiangere i bei tempi antichi è di fatto un rifiuto del presente, il tempo che ci è concesso. Il nono tema del Sinodo diocesano di Padova è “Il volto delle parrocchie: stare nella transizione e nel processo”. Insomma, si parla di cambiamento nella sua globalità, di linguaggi datati e di contesti sociali che cambiano, di comunità da ripensare ma anche di tesori e risorse che non aspettano altro di essere valorizzate per un rinnovato slancio missionario. «Le parrocchie cambiano perché noi cambiamo – spiega don Luciano Danese, parroco di Tencarola – perché la cultura che respiriamo e la nostra esperienza di fede stanno cambiando. Il cambiamento che le riguarda, forse ancora poco rispetto alle sfide attuali dell’evangelizzazione, non è indolore. La parrocchia ha una storia gloriosa e come ogni istituzione ha un funzionamento proprio e consolidato, resistente al cambiamento. Ma è altrettanto evidente che c’è bisogno di un processo di rinnovamento ed è salutare esserne protagonisti, invece che esserne spettatori passivi e rassegnati». Oltre a “smascherare i miti del cambiamento come atto magico, o come dipendente dal carisma messianico o dalle capacità di pianificazione di una persona, occorre per don Danese «riconoscere la crisi che attraversano le parrocchie» e individuare il cammino da percorrere per “generare il cambiamento”. Sono i passaggi che si stanno compiendo con il cammino del Sinodo diocesano. Papa Francesco ci invita a essere Chiesa in uscita. «Che cosa ci trattiene e rende faticosa l’azione evangelizzatrice delle parrocchie? – si chiede don Danese – Lasciandoci raggiungere da una parola autorevole di papa Paolo VI, ricordo quanto nella Evangelii nuntiandi raccomandava agli evangelizzatori di non essere né “impazienti e ansiosi”, né “tristi e scoraggiati”». Immaginando le parrocchie del futuro, «esprimo il desiderio che si incamminino su sentieri, che le rendano più capaci di annunciare il Vangelo. Ne indico tre. Il primo è la consapevolezza del dono grande che ci è stato affidato: la fede in Gesù Cristo. Rendere Dio nuovamente desiderabile: questa forse è la nostra prima missione. Un secondo sentiero è la cura della fraternità all’interno delle parrocchie. Il terzo fa riferimento alla cattolicità della Chiesa. Le comunità cristiane sono chiamate a essere aperte, ospitali, capaci di accogliere e valorizzare il dono spirituale di ciascuno».

Fratel Enzo Biemmi della congregazione dei Fratelli della Sacra Famiglia, esperto in catechesi e presidente dell’Equipe europea dei catecheti paragona le parrocchie del nostro Triveneto alla chiesa di San Martino a Valle di Cadore: «Davanti è una chiesa molto bella, solida, affacciata sulla strada, come le parrocchie di una volta, ma dietro si vede come il terreno stia franando e sia sospesa sul vuoto». Un’immagine forte: «Il terreno su cui poggia non è più quello della società della cristianità, ma il villaggio globale delle relazioni mobili e della pluralità delle convinzioni sulla fede». Ma a chi vede nelle parrocchie solo «stazioni di servizi religiosi», fratel Biemmi ricorda il compito missionario dello stare accanto ai momenti di passaggio della vita, dai battesimi ai funerali, passando per i matrimoni (che si stanno riducendo): «La parrocchia è per tutti, anche per i poveri di fede e per chi passa una volta ogni tanto. La porta è sempre aperta. Questa sua “cattolicità” è la sua debolezza e la sua forza rispetto ad altre forme di appartenenza “di elezione”». In questa “pastorale sacramentale” è importante che gesti e riti siano «offerti in un contesto di ascolto della vita delle persone», perché la Chiesa in uscita è in «uscita esistenziale, collocandosi dove Dio ha posto la sua tenda, cioè la vita delle persone». La lezione più importante, in questo senso, arriva da un amico belga di fratel Biemmi: «Colpito dalla ricchezza di strutture e di risorse che ancora abbiamo in Italia, ci ha invitato a fare presto: “Trasformate le vostre risorse in prospettiva missionaria, usatele per rafforzare e sostenere la fede dei credenti”». Ma non si può restare seduti durante la transizione, in attesa che il cambiamento si stabilizzi: «In questo momento non c’è da sognare un nuovo modello – precisa il catecheta – ma “stare nel disordine”, un “disordine ordinato”, illuminato da un continuo sforzo di discernimento. Il punto fermo è ricostruire strutture dove sia possibile vivere il Vangelo, testimoniarlo e darlo a tutti».

Don Daniele Cognolato, giovane parroco di Ponte San Nicolò, vede come principale cambiamento per la parrocchia «la trasformazione da appartenenza territoriale ad appartenenza di elezione. La dimensione della scelta è sempre più determinante». E in questa parrocchia di elezione la figura del sacerdote diventa «elemento di mediazione e di coinvolgimento», mentre i laici e gli organismi di corresponsabilità sono chiamati a passare «da un semplice ruolo esecutivo alla necessità di mettersi a ragionare, a fare progetti, a elaborare qualcosa che non sia la sola ripetizione degli schemi del passato. Serve fantasia, inventiva, ascolto della realtà e della chiamata del Signore». Anche qui, ci sono dei caveat: «Il rischio di trasformare l’evangelizzazione in marketing è molto alto, così come il rischio di perdere l’identità di comunità adottando modelli aziendali». Non c’è pianificazione che possa sostituire il cuore della comunità cristiana: «Di fronte al mistero della morte e del dolore innocente le persone si ritrovano insieme a cercare una fonte di senso che non troverebbero mai se non nella Parola di vita eterna che la comunità cristiana non solo è ancora capace di custodire, ma anche di annunciare e di trasmettere semplicemente nello stare accanto, nell’offrire una parola di speranza, nell’offrire quei semplici gesti che permettono alle persone di trascendere la realtà visibile e guardare al mistero». Gesti come quelli di papa Francesco.

Don Giovanni Marchiorello, parroco di Vigonza, non nasconde il peso dei problemi, la stanchezza, l’amaro in bocca che lascia l’immagine delle chiese svuotate dopo la pandemia. Ma nel cambiamento rimane un punto fermo: «Gesù di Nazareth è il riferimento che ci guida in due direttrici: la “pedagogia del vedere” di Colui che amplifica la nostra visione e ci fa passare dai nostri orizzonti ristretti all’orizzonte di Dio; e “l’arte della tenerezza”, per immedesimarci nella vita interiore degli altri facendone emergere offese e speranze». La parrocchia intesa come «presidio militare contro la secolarizzazione», o come «coperta extralarge che comprendeva una miriade di servizi», deve tornare il luogo dello stupore: «Dobbiamo tornare a stupirci davanti a tutto, scegliendo ciò che è essenziale per le parrocchie». Cosa? «Le relazioni. Le parrocchie non saranno centri burocratici di servizi se terranno al centro l’arte difficile ma entusiasmante della relazione, la relazione semplice, cordiale, con il sorriso. Quando incontri un’altra persona devi avere la capacità di deliziarti di tutto ciò che ti piomba addosso, accogliendolo come un’offerta e non come un peso». Ma per stupirsi di fronte alla vita delle persone e per entrare in relazione con loro occorre uscire «da quella comfort zone che consiste nell’abitare solo il conosciuto e ripetuto».

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