Corea del Nord, un esule racconta la sua fuga dal regime di Pyongyang

La povertà del Nord, la fuga e il reinserimento all’interno della società sudcoreana. Jun Heo racconta la sua esperienza come “North Korean Defector”. Dopo aver tentato di scappare per ben tre volte, Jun è riuscito a raggiungere Seul, dove oggi vive e studia

Corea del Nord, un esule racconta la sua fuga dal regime di Pyongyang

La prima volta che cercai di scappare dalla Corea del Nord avevo nove anni; arrivai in Cina ma fui subito catturato e rispedito indietro”. Kim Jun Heo ha 25 anni. Vive e studia a Seul, capitale sudcoreana, dove frequenta la Seoul National University. Oltre ad essere un giovane studente di scienze politiche è anche uno dei trentamila esuli nordcoreani che vivono in Corea del Sud dopo la fuga dal regime di Pyongyang. Nel mondo sono conosciuti come “North Korean Defectors”.

“Rimasi in Cina per tre giorni, pensando solo a come procurarmi del cibo per sopravvivere. Ma al Nord il mio patrigno aveva già denunciato la mia scomparsa e mi ripresero in un attimo”. Tuttavia, il periodo in Cina aveva mostrato a Jun com'era la vita nel mondo esterno e questo lo rendeva ancora più determinato a lasciare la Corea del Nord. “Nel 2008 tentai nuovamente di scappare, perché la mia permanenza a Pechino mi aveva fatto scoprire molte cose. Per esempio, non avevo mai visto così tante macchine e edifici alti. Oppure il cibo. Non avevo molti soldi quando ero arrivato, ma potevo comprare tante cose a poco prezzo. Era la prima volta che potevo mangiare così tanto riso! Pensavo che fosse una specie di sogno”.

Rientrare in Corea del Nord per Jun non fu facile: come spiega a Redattore Sociale, i nordcoreani che tentano di lasciare il Paese, vengono inviati per un periodo di tempo in un campo di lavoro e poi “classificati” come “ostili al governo”. “Non potevo tornare a scuola dopo essere stato catturato dalla polizia in Cina perché in Corea del Nord tutti avevano una “classe”. Ed io ero “classe ostile”, quindi tutti mi hanno evitato”.

Secondo i dati raccolti dalla Korea Hana Foundation (Khf), in Corea del Sud vivono circa trentamila rifugiati nordcoreani. Negli anni i dati riportano un quadro di arrivi dal Nord altalenante, con un afflusso già in crescita poco dopo la divisione, intorno agli anni ’60, fino al picco raggiunto durante il periodo della carestia degli anni ’90.

“La Grande Carestia – spiega Michael Kim, fellow professor presso la Yonsei University di Seul, – ha innescato un esodo di massa dei nordcoreani in Cina, dove, al di là delle difficoltà di sopravvivenza in un paese straniero, gli esuli hanno affrontato anche la paura di essere deportati nuovamente al Nord. Di conseguenza, i rifugiati nordcoreani hanno tentato il pericoloso viaggio verso la Corea del Sud, dove oggi formano una popolazione considerevole”.

Il governo sudcoreano, fino al 2005, ha stanziato circa 35.000 dollari in quote di sussistenza destinate ai rifugiati, ma in seguito il sistema è cambiato e si è scelto di basarlo prevalentemente sugli incentivi: in poche parole, oggi i rifugiati nordcoreani ricevono la cittadinanza sudcoreana, alloggi di base e assistenza sociale, con un bonus di circa 30 dollari al giorno. Il reinserimento di queste persone all’interno del sistema sociale della Corea del Sud non è mai un’impresa facile.

“Un'esperienza comune tra i rifugiati nordcoreani – spiega Kim Tae-ri, impiegata presso la Khf – è il senso di tradimento per la dottrina ideologica del regime che gli è stata impartita fin da piccoli. I Defectors trascorrono una vita intera a credere nel culto di Kim Il-sung e Kim Jong-il, solo per scoprire che è tutto falso, che la prosperità del sud capitalista superava di gran lunga il Nord”. 

La maggior parte degli esuli si è adattata alla società sudcoreana e non ha intenzione di tornare al Nord. Tuttavia, racconta Tae-ri, in molti hanno riscontrato problemi di adattamento alla vita capitalista nel sud e non sono in pochi ad aver deciso di tornare al Nord a causa delle difficoltà economiche e delle discriminazioni che hanno incontrato. La vita nel Sud potrebbe essere molto meglio delle loro circostanze povere in Corea del Nord, ma l’adattamento ad una realtà così diversa dalla propria si è rivelata essere una sfida immensa per molti rifugiati. E la situazione è forse anche peggiore per chi cerca rifugio in Cina. Infatti, a causa dell'attuale intesa tra i governi cinese e nordcoreano, gli esuli vengono considerati dai cinesi come rifugiati economici e quindi rispediti al Nord se catturati.

Un numero sproporzionato di rifugiati nordcoreani, inoltre, sono donne, spesso vendute come spose per uomini cinesi nelle zone rurali. Alcuni studiosi ipotizzano, infatti, che le donne, partecipando maggiormente al mercato nero della Corea del Nord, abbiano più facilmente accesso ai media che provengono fuori dal Paese. L’esposizione a influenze esterne può spingerle, dunque, ad abbandonare le loro vite nel Nord. Numerosi sono, poi, i racconti di scene drammatiche di nordcoreani che cercavano di entrare nell'ambasciata sudcoreana a Pechino a causa del loro desiderio di chiedere asilo. Tuttavia, la maggior parte dei rifugiati deve raggiungere il sud-est asiatico o fuggire in Mongolia prima di poter essere inviato in Corea del Sud. Numerosi sono i valichi di frontiera in Vietnam, Laos o Thailandia, località dove alcune organizzazioni attiviste sudcoreane gestiscono spesso "case sicure" che assistono nel trasporto di rifugiati verso la Corea del Sud.

Il Sud, al momento, è molto diviso sulla questione “dialogo con il Nord”. Tra le tante opzioni che il Ministero per la Riunificazione (fondato nel 1969, reparto esecutivo del governo sudcoreano volto a promuovere la riunificazione della penisola)  propone, ce ne sono due che prevalgono e quasi spaccano l’opinione pubblica sudcoreana. Una è la cosiddetta “sunshine policy”, introdotta dal partito centrista sudcoreano sotto la presidenza di Kim Dae-jung. I suoi sostenitori osservano che le sanzioni e le minacce degli Stati Uniti e della Corea del Sud hanno danneggiato e non migliorato le prospettive di riunificazione. Sostengono che se la Corea del Nord non si sentisse minacciata non avrebbe niente da perdere, ma anzi trarrebbe un guadagno a dialogare con il Sud e a non sviluppare armi nucleari. Un'altra via seguita dai sudcoreani, totalmente opposta all’altra è la linea dura. Gli oppositori alla sunshine policy pensano che il dialogo con la Corea del Nord non abbia migliorato le prospettive di riunificazione, sottolineando il carattere antidemocratico, totalitario e corrotto del sistema nordcoreano. Credono inoltre che la Corea del Sud abbia avuto pochi benefici dal trasferimento di denaro al Nord, pensano che il Sud debba ancora temere un eventuale attacco da Pyongyang e che ulteriori aiuti al Nord servano solo a rinforzare il regime di Kim Jong-un, che da sempre sembra sostenere che un’ipotetica riunificazione si possa realizzare soltanto senza interferenze dall'esterno.

In questo clima, come abbiamo visto, si collocano i Defectors. In bilico tra un Nord da cui scappano e un Sud dove non sempre si sentono a casa, queste persone sono l’emblema stesso dell’essenza contraddittoria della Corea. Discriminati, costretti a fuggire, raccontano la loro storia lasciando in ombra molte parti, quasi a proteggere, nonostante tutto, la madrepatria. Il problema dei rifugiati in Corea del Nord, le loro storie e racconti, sono ormai una questione transnazionale che riguarda non solo le relazioni tra la Repubblica di Corea e la Cina ma anche diverse nazioni che confinano con la città del Dragone. Le recenti repressioni nella Corea del Nord hanno reso molto più difficile la fuga dei rifugiati nordcoreani e le pene sono diventate più severe. Tuttavia, coloro che riescono a uscire con successo dalla Corea del Nord affrontano poi un problema ancora più grande: quello di diventare apolidi nelle nazioni ospitanti in cui risiedono.

Chiara Capuani

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)