È nata una Stella(ntis). Dopo l'unione sorge un enorme interrogativo: che ne sarà dell’industria automobilistica italiana

Quando si parla di “costi” da tagliare in un ampio disegno di riordino, è un attimo che uno stabilimento passi dalla produzione di auto a quella di polvere e ragnatele.

È nata una Stella(ntis). Dopo l'unione sorge un enorme interrogativo: che ne sarà dell’industria automobilistica italiana

È nata una Stellantis, nella galassia dei produttori d’auto mondiali. Una realtà gigantesca che raggruppa la conglomerata francese che fa capo a Peugeot (quindi pure Citroen, Ds, Opel) e quella italiana raggruppata nella sigla Fca (Fiat, Alfa Romeo, Lancia, Maserati, Jeep, Ram…). Si producono già ora 8 milioni di veicoli in un anno, si punta a quota 10% del gigantesco mercato automobilistico che è stato completamente stravolto nell’ultimo decennio.
Sono entrati proprietari cinesi, indiani, arabi, coreani; sono stati cancellati marchi gloriosi e aggregate case automobilistiche che, da sole, non stavano più in piedi. È spuntata una meteora – Tesla – che negli ultimi due anni è diventata l’azienda finanziariamente più ricca del mercato, dieci volte più di Stellantis per dire. Perché nel frattempo è cambiato il mondo.
L’Occidente ha deciso di combattere l’inquinamento globale puntando decisamente sulle energie alternative. C’è finita in mezzo l’auto, e la pandemia ha dato una spinta decisiva alla conversione dei motori a scoppio in elettrici. Chi aveva già fatto strada in materia – appunto Tesla, ma anche Toyota e infine le tedesche – ha preso un vantaggio decisivo su quelle aziende che, per varie ragioni, su ibrido ed elettrico erano in ritardo: vedi le francesi e soprattutto le italiane.

Ora si uniscono per fare quadrato, tagliare i costi, mettere assieme le risorse per dare la scalata al mercato cinese (in prospettiva il numero uno del mondo) dove ora sono tagliate fuori, e per dotarsi di motorizzazioni “green” che richiedono miliardi di investimenti.
Qui sorge un enorme interrogativo: che ne sarà dell’industria automobilistica italiana? Dei suoi stabilimenti in Piemonte, Emilia Romagna, Campania, Basilicata, Lazio, Abruzzo, Molise? Di un indotto che vive anche di altre commesse, ma che certamente pesa quanto se non più di Fiat o Alfa?
Perché, quando si parla di “costi” da tagliare in un ampio disegno di riordino, è un attimo che uno stabilimento passi dalla produzione di auto a quella di polvere e ragnatele. E c’è un jolly che falsa la questione: azionista di Stellantis è pure lo Stato francese, come lo era di Peugeot (e di Renault). Che mai consentirà la “razionalizzazione” di un qualche stabilimento in suolo francese…

È chiaro che un’azienda mira a ottimizzare costi e guadagni valutando il meglio in proposito, quindi saranno produttività e qualità industriale ad avere la precedenza. Ma certi veti politici pesano. E qui in Italia allora ci si chiede: non sarà il caso che puro lo Stato italiano metta qualche soldino dentro Stellantis, non fosse altro che per tutelare il proprio Pil?
Risposta per ora non c’è, o forse chi lo sa. Perché la logica interventista non fa una grinza: si elimina uno “squilibrio”. Ma una grande azienda privata che parta con due simili zavorre sulle proprie scelte, non sembra avere tanta strada davanti.

Vedremo. Certo è che l’industria automobilistica è strategica per ogni grande economia; che Renault-Nissan hanno dietro Parigi e Tokyo; la galassia Volkswagen il Land della Westfalia; Hyunday e Kia hanno tutto l’appoggio del governo coreano, per non parlare di case automobilistiche di proprietà di fondi sovrani o con la “protezione” pesantissima di Pechino.
Ecco, ad essere corretti si ricevono molti applausi, ma si rischiano pure certe fregature… Quindi pensiamoci.

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Fonte: Sir