«Il suono delle bombe è sempre più vicino». Fuggire, ma dove? La testimonianza esclusiva dal cuore di Rafah

Ibrahim Taha Mohammed Turki da cinque mesi vive nella sua tenda a Tal al-Sultan, area nel sudovest di Rafah vicino al confine con l’Egitto, insieme ai suoi genitori, sua moglie e i suoi tre figli. Qui si sono rifugiati gli sfollati provenienti da tutta la Striscia, scappando dai bombardamenti e dall’avanzata via terra dell’esercito israeliano. Per mesi luogo sicuro e "inviolabile", valico essenziale per il passaggio degli aiuti umanitari, dalla notte di lunedì 6 maggio, dopo i bombardamenti di Israle, la situazione è delicata e a un passo dall'esplodere. «La "zona sicura" è lontana da dove ci troviamo noi, i costi di trasporto sono altissimi e una volta lì anche procurarci una nuova tenda sarà difficilissimo. Per di più non ci saranno le strutture e i mezzi per soddisfare le necessità di base: acqua potabile, servizi igienici, cibo…

«Il suono delle bombe è sempre più vicino». Fuggire, ma dove? La testimonianza esclusiva dal cuore di Rafah

«Sono andato in preda all’ansia. Ormai siamo a Rafah da un po’, in un certo senso eravamo stabili: riuscivamo a procurarci cibo e acqua. Ora dobbiamo andarcene ma non sappiamo dove. Confidavamo molto nei risultati dei colloqui a Il Cairo per la tregua, invece…». Sono le parole di Ibrahim Taha Mohammed Turki, conosciuto nel giugno 2022 nella Striscia di Gaza, e che negli ultimi cinque mesi insieme ai suoi genitori, sua moglie e i suoi tre figli ha vissuto in uno dei campi in cui gli sfollati provenienti da tutta la Striscia si sono rifugiati scappando dai bombardamenti e dall’avanzata via terra dell’esercito israeliano.

Ibrahim lunedì 6 maggio si è svegliato nella sua tenda a Tal al-Sultan, area nel sudovest di Rafah vicino al confine con l’Egitto, quando dopo una notte di bombardamenti gli israeliani hanno intimato ai civili di evacuare dalla zona orientale di Rafah, recapitando l’ordine sotto forma di volantini che indicavano al-Mawasi come “zona sicura”. Pur trovandosi a ovest, anche Ibrahim racconta di aver visto questi fogli piovere dal cielo e seppur il pericolo di restare sia in costante crescita, scappare non è un’impresa semplice per lui, così come per molti dei civili che da sette mesi vivono nell’incertezza. «La "zona sicura" è lontana da dove ci troviamo noi, i costi di trasporto sono altissimi e una volta lì anche procurarci una nuova tenda sarà difficilissimo. Per di più non ci saranno le strutture e i mezzi per soddisfare le necessità di base: acqua potabile, servizi igienici, cibo… – spiega Ibrahim, raggiunto telefonicamente – Stamattina (mercoledì 8 maggio, ndr), una volta letti i volantini, molte famiglie hanno iniziato a pensare di scappare e altre sono effettivamente partite».

La sua famiglia non è nuova a fughe di questo tipo: prima dell’inizio dell’offensiva israeliana contro Gaza a ottobre dell’anno scorso, Ibrahim viveva a Beit Hanoun, nell’estremo nord della Striscia. Ha lasciato la sua casa prima spostandosi a Gaza City, poi da lì nel campo rifugiati di Nuseirat, al centro dell’enclave palestinese, e infine arrivando a Rafah dopo due mesi dall’inizio dei combattimenti, dove come lui oltre un milione di sfollati palestinesi si sono trovati in condizioni precarie e temono ora un’ecatombe annunciata. 

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Proseguono le pressioni internazionali sul Governo israeliano che chiedevano di astenersi dall’invadere Rafah, arrivate da numerosi governi europei e persino dall’alleato e presidente statunitense Joe Biden. Gli americani avevano più volte sollecitato Israele a elaborare un piano di evacuazione dettagliato e sicuro per i civili palestinesi rifugiati a Rafah, nel caso di un’offensiva via terra. Al posto di un piano di evacuazione è arrivato un volantino, tutt’altro che esaustivo, che preannunciava l’uso di “estrema forza” da parte dell’esercito israeliano e non indicava via sicure per lasciare la città. «Ovviamente non ho nessuna fiducia nel fatto che la comunità internazionale possa in qualche modo dissuadere o fermare Israele. Non sono riusciti a fermare la guerra e i massacri fino ad ora e Israele continuerà finché tutta la Striscia di Gaza, Rafah compresa, non sarà rasa al suolo» commenta Ibrahim. 

La speranza di Ibrahim e degli oltre due milioni di civili palestinesi nella Striscia nel raggiungimento di una tregua, per un attimo riaccesa lunedì dalla scelta di Hamas di accettare una proposta stilata da Egitto e Qatar, si è frantumata di nuovo di fronte alla prosecuzione dei bombardamenti israeliani e l’inizio di una penetrazione via terra nella zona orientale di Rafah. Del resto, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu da settimane escludeva la possibilità di un cessate il fuoco permanente e ripeteva che l’offensiva su Rafah si sarebbe fatta, con o senza un accordo per la tregua o per lo scambio degli ostaggi catturati il 7 ottobre con i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane.

«Il suono delle bombe è sempre più vicino e le truppe di terra israeliane sono arrivate al valico di Rafah» ci racconta Ibrahim, sempre dalla sua tenda a Tal al-Sultan, all’indomani del lancio di quei volantini che avevano allarmato i residenti della Striscia e la comunità internazionale. A preoccupare molto è anche il fatto che l’arrivo dei tank israeliani al valico tra Gaza e l’Egitto sancisce l’impraticabilità dell’entrata di aiuti umanitari da quella che era stata una delle arterie principali di rifornimenti per la popolazione della Striscia. Nel frattempo, l’altro valico operativo per quanto riguarda l’accesso degli aiuti, quello di Kerem Shalom sempre nel sud della Striscia, è blindato da giorni, a seguito di un lancio di razzi rivendicato da Hamas contro le truppe israeliane nell’area, che ha causato la morte di quattro soldati dello Stato Ebraico stando ai numeri dichiarati da Israele. 

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Con i valichi chiusi e la possibilità concreta che le organizzazioni umanitarie lascino Rafah, il destino di chi non riuscirà a scappare è minacciato dal fuoco israeliano ma anche dalla scarsità estrema. «Compravamo la maggior parte del cibo sul mercato nero, ma era già molto costoso, e in parte ricevevamo aiuti, che però erano razionati. Ora i prezzi sul mercato nero sono schizzati e continuano a crescere di ora in ora, mentre è probabile che le organizzazioni umanitarie lascino Rafah per salvare le vite dei loro operatori. La condizione degli sfollati diventa ancora più disastrosa, perché non possiamo più ricevere l’assistenza necessaria». 

Paralizzati e spaventati, oppure in fuga dalle bombe e dai carri armati che minacciano di devastare Rafah, verso le macerie nelle aree centrali della Striscia che quelle stesse bombe e quegli stessi tank si sono lasciati alle spalle nelle scorse settimane e mesi. Queste le due sorti che ora toccano ai civili che, come Ibrahim, sono intrappolati nella Striscia. 

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