Inps: a 3,7 milioni di persone reddito o pensione di cittadinanza. “Sì” al salario minimo

Relazione annuale. Un gran numero di percettori di RdC/PdC (in media 552 euro per intero nucleo familiare) è costituito da minori (1.350.000), disabili (450 mila), persone con difficoltà fisiche o psichiche non percettori di pensioni di invalidità. Verso una crescita della domanda di welfare e della spesa assistenziale. Sono 16 milioni i pensionati, con divario retributivo a favore degli uomini

Inps: a 3,7 milioni di persone reddito o pensione di cittadinanza. “Sì” al salario minimo

Mentre le analisi Inps illustrano come la disuguaglianza nei redditi annuali sia cresciuta di quasi il 50% negli ultimi 30 anni, e la disuguaglianza salariale raddoppiata, è evidente un inesorabile aumento della precarizzazione del lavoro che richiede maggiori protezioni ed equità. “In questa direzione andrebbe l’inserimento di un salario minimo – rileva la relazione dell’Inps, presentata questa mattina - , che avrebbe un effetto non solo di contrasto alla povertà ma anche di stimolo ai consumi e alla crescita, oltre ad un effetto positivo sui saldi di finanza pubblica. Si stima un aumento del gettito di 3 miliardi con un salario minimo a 9 euro”.

Reddito di cittadinanza e pensione di cittadinanza

“Inequivocabile”, secondo la relazione, l’efficacia nel contrasto alla povertà e inclusione sociale apportato dal Reddito/Pensione di Cittadinanza, soprattutto nel 2020, diventando un fattore determinante per 1,8 milioni di famiglie contro un impatto ancor peggiore dalla crisi. Sono 3,7 i milioni di individui, di cui un quarto minori, che hanno beneficiato della misura in quanto membri di un nucleo percettore, che in media ha ricevuto 552 euro al mese per nucleo familiare.

La occupabilità dei percettori di RdC, purtroppo, è molto scarsa. Un gran numero di percettori di RdC/PdC – una misura la cui erogazione è pari in media a 552 euro per intero nucleo familiare - è costituito da minori (1.350.000), disabili (450.000), persone con difficoltà fisiche o psichiche non percettori di pensioni di invalidità, oltre a circa 200.000 percettori di PdC. Soprattutto per essi la misura è stata un’àncora di salvataggio, uno strumento di inclusione sociale prima di tutto, una leva contro la regressione nella povertà assoluta.

I dati Inps, incrociati con ulteriori indicatori di disagio economico locale, dimostrano che l’incidenza del RdC aumenta con il crescere dello svantaggio economico e si riduce al migliorare delle condizioni del mercato del lavoro, evidenziando che la distribuzione territoriale del beneficio è condizionata principalmente da fattori socioeconomici.
“Il capitale sociale ha un ruolo importante nello spiegare l’incidenza dei percettori di RdC/PdC nei comuni di tutte le aree del Paese e, quando si stima un modello di regressione per spiegare l’incidenza delle revoche a livello comunale, emerge che a parità di tali condizioni, non si riscontra alcuna differenza tra aree del Nord e del Sud”, si afferma.
“Nel 2020, l’Inps ha intensificato le procedure per controlli amministrativi interni sincroni già in fase di istruttoria, che si affiancano alle efficaci collaborazioni sinergiche con le Forze dell’Ordine e con la Guardia di Finanza, con ottimi risultati. Ulteriori implementazioni sono in corso, grazie ad accordi con diverse amministrazioni che detengono dati di interesse. Parallelamente, con ben altro intento, attraverso accordi di Inps con Caritas, Sant’Egidio e Anci, viene promossa la ricerca attiva di coloro che vivono situazioni di maggior disagio per aiutarle ad accedere a prestazioni erogate da Inps che forse non conoscono e che possono rivelarsi per loro fondamentali”.

NASpI. I dati sulla NASpI non mostrano una tendenza negativa rispetto al 2019 in quanto il blocco dei licenziamenti ha ridotto gli ingressi nella condizione di disoccupazione: rispetto al 2019 i beneficiari a seguito di licenziamento, che nel 2019 erano 811 mila, sono divenuti 654 mila, mentre è aumentata leggermente la componente proveniente dai cessati nei contratti a termine (da 1.656.000 a 1.723.000).

Denatalità e lavoro

“La scarsa natalità che caratterizza il Paese ha un impatto sul mercato del lavoro e sulla sostenibilità della crescita economica”, si afferma. I giovani entro i 29 anni di età, che nel 1951 rappresentavano più della metà della popolazione (51,6%), ne costituiscono oggi circa il 28%. Tale squilibrio è ormai diffuso in tutto il territorio nazionale. Secondo l’Istat, l’indice di dipendenza, cioè il rapporto tra la popolazione non attiva e quella attiva, è da anni superiore al 50%, mentre l’indice di vecchiaia (maggiori di 65 anni/minori di 14 anni) è aumentato di oltre il 5% tra il 2019 e il 2020, raggiungendo la quota di 179,3 anziani ogni cento giovani.
“Data la composizione non omogenea per fasce di età della popolazione italiana, la situazione è destinata ad aggravarsi e l’ingresso di lavoratori dall’estero ha compensato solo in parte tale squilibrio: quando volgerà al termine il ciclo di vita demografico dei cosiddetti baby boomers, il ritmo di entrata non sarà più sufficiente a compensare quello di uscita e la domanda di welfare tenderà ad aumentare per effetto della spesa sanitaria dovuta all’invecchiamento della popolazione”.

Anche la spesa assistenziale tenderà ad aumentare, “soprattutto per le esigenze di protezione di un mercato del lavoro caratterizzato da eccessiva flessibilità, redditi instabili e precari. Aumenta il part-time, soprattutto tra le donne, con un conseguente allargamento del divario reddituale e contributivo tra i generi, e si amplia il dualismo tra Centro-Nord e Sud Italia. A riguardo, l’allargamento della base contributiva grazie a maggiori tassi di partecipazione e il contrasto al lavoro nero richiederebbero maggiori investimenti e politiche pubbliche incisive per riequilibrare le differenze”.

Secondo la Relazione, l’attenzione politica dovrebbe attestarsi maggiormente su tre aspetti in particolare: maggiore sostegno alla natalità; ampliamento della base contributiva, soprattutto al Sud, con l’emersione del lavoro irregolare, regolarizzazione degli stranieri, spinta verso tassi di partecipazione più alti, soprattutto da parte delle donne; incremento della produttività del lavoro. “In tale contesto, l’introduzione di nuove misure come l’assegno unico potrebbero dare un contributo alla ripresa delle nascite e alla produttività – si sottolinea -, insieme alla previsione di un congedo di maternità obbligatorio e più lungo anche per gli uomini e una contribuzione agevolata per le donne madri”.
“Occorre ripensare anche il ruolo dei giovani, intervenendo con misure che migliorino la qualità della formazione, favoriscano un maggior assorbimento da parte del tessuto produttivo ed evitino la fuga verso altri paesi di molti giovani specializzati: l’inserimento nel mercato del lavoro di giovani con un bagaglio di conoscenze informatiche e digitali, oltre che professionali, potrebbe essere funzionale alla sempre auspicata svolta digitale nella pubblica amministrazione e nel settore privato”.

Spesa pensionistica

Al 31 dicembre 2020, i pensionati italiani erano pari a circa 16 milioni, di cui il 7,7% uomini e l’8,3% donne. Nonostante le donne pensionate siano la maggioranza, le pensioni medie mensili degli uomini (pari a 1.897 euro) superano significativamente quelle delle donne (pari a 1.365). Il divario retributivo a livello territoriale si riflette nel dato pensionistico: le pen­sioni medie al Centro-Nord superano di poco i 1.700 euro, mentre quelle al Sud e Isole sono pari a 1.400 euro. Le prestazioni previdenziali rappresentano l’81% del totale e quelle assistenziali il 19%. La categoria più numerosa è rappresentata dalle pensioni di anzianità/anticipate con il 30,9% del totale, seguita da quella delle pensioni di vecchiaia con il 24,5% e dalle pensioni ai superstiti con il 20,5%; le prestazioni agli invalidi civili sono il 15,3% del totale; le prestazioni di invalidità previden­ziale e le pensioni/assegni sociali sono rispettivamente il 5% e il 3,9%.

Quota100

La misura sperimentale e triennale di Quota 100 ha permesso il pensiona­mento anticipato di 180.000 uomini e 73.000 donne nel primo biennio 2019-20. Dall’analisi del take-up di Quo­ta 100 emerge che la misura è stata utilizzata prevalentemente da uomini, con redditi medio-alti e con una incidenza percentuale maggiore nel settore pubblico. Se ci si limita invece ai dipendenti del settore privato, oltre al genere e al reddito, assume un ruolo chiave anche la salute negli ultimi anni di carriera. Rispetto agli impatti occupazionali attraverso la sostituzione dei pensionati in Quota 100 con lavoratori giovani, un’analisi condotta su dati di impresa non mostra evidenza chiara di uno stimolo a maggiori assunzioni derivante dall’anticipo pensionistico.

Opzione Donna

L’opzione Donna ha permesso circa 35.000 pensionamenti nel primo biennio 2019-20. Dall’analisi di un campione di donne con i requisiti per l’adesio­ne a questo canale di pensionamento, emerge che hanno scelto l’Opzione prevalentemente soggetti con redditi bassi, a volte silenti, ovvero senza versamenti contributivi nell’anno antecedente al pensionamento. Anche limitandosi al solo settore privato, il reddito basso si conferma essere la determinante più significativa per questa scelta.

Revisione del sistema pensionistico

“Il dibattito pubblico recente si è concentrato su alcune proposte di revisione del sistema pensionisti­co. Nel Rapporto Annuale si approfondiscono tre proposte, dal punto di vista degli effetti economici sulla spesa pensionistica sia nel breve che nel lungo periodo. Nello specifico, sono analizzate: la proposta di consentire il pensionamento anticipato con 41 anni di contribuzione, a prescindere dall’età; l’opzione al calcolo contributivo con 64 anni di età e 36 di contributi; e un’opzione di anticipo della sola quota contributiva della pensione a 63 anni, rimanendo ferma a 67 la quota retributiva.

Dall’approfondimento emerge che la prima proposta è la più costosa, partendo da 4,3 miliardi di euro nel 2022 e arrivando a 9,2 miliardi a fine decennio, pari allo 0,4% del prodotto interno lordo. La seconda è meno onerosa, costando inizialmente 1,2 miliardi, con un picco di 4,7 miliardi nel 2027, e per questo più equa in termini intergenerazionali, con risparmi già poco prima del 2035, per effetto della minor quota di pensione dovuta all’anticipo ma soprattutto per i risparmi generati dal calcolo contributivo. Nell’ultima proposta analizzata si garantisce flessibilità per la componente contributiva dell’assegno pensionistico con costi molto più bassi per il sistema: l’impegno di spesa parte da meno di 500 milioni nel 2022 e raggiungerebbe il massimo costo nel 2029 con 2,4 miliardi di euro. Nel lungo periodo le proposte portano a una riduzione della spesa pensionistica rispetto alla normativa vigente, ma con impatti chiaramente differenti e diversa sostenibilità sui conti pubblici.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)