M5s, rottura prevedibile. «Le forze politiche non intercettano più le esigenze delle classi mediobasse»

Il politologo Paolo Feltrin analizza la situazione politica dopo le recenti amministrative a partire dalla scissione interna al Movimento fondato da Beppe Grillo. I problemi tuttavia sono anche in altre formazioni e l'elettorato tende a polarizzarsi perché non si sente adeguatamente rappresentato.

M5s, rottura prevedibile. «Le forze politiche non intercettano più le esigenze delle classi mediobasse»

Il Movimento 5 Stelle si è recentemente spaccato in due. Perché? Quali sono i motivi? Lo abbiamo chiesto al politologo Paolo Feltrin: «Si tratta di una spaccatura che ha stupito un po’ tutti. Che ci fosse del dissenso e una contrapposizione interna sempre più evidente tra Conte e Di Maio non era certo un segreto. Tuttavia, le elezioni di poche settimane fa avevano evidenziato una radicalizzazione bipolare del voto amministrativo: il 90 per cento dei voti sono andati al centro-destra e al centro-sinistra in tutti i posti in cui si è votato. Quindi, le elezioni amministrative hanno mostrato che non c’è lo spazio per una terza forza. Se poi questa terza forza ulteriormente si divide, ci si chiede dove i 5 stelle possano andare a parare, specie se si tiene conto che il sistema elettorale attuale premia, e di molto, le grandi coalizioni. Questo per me è il primo elemento: una certa irragionevolezza e irrazionalità della scelta».

Ci sono altri aspetti?

«Il secondo aspetto, quasi opposto al primo,  è che era prevedibile il M5S fosse destinato a declinare. Semmai, rispetto alle previsioni, è durato più a lungo di quanto avessi immaginato. Una forza politica che prende così tanti voti in un colpo solo è destinata inevitabilmente a fratturarsi, perché porta dentro di sé voti di destra, sinistra, centro ed è priva di solidi amalgama ideologici, identitari... Non a caso già nelle elezioni del 2019 e del 2020 i 5S avevano perso la loro ala destra, calando di circa il 30-40 per cento, a seconda delle aree geografiche. Questa ulteriore spaccatura – in un certo senso inevitabile – ha poi un’altra stranezza: i due leader si sono scambiati le parti in commedia. Conte, di cui tutto si può dire tranne che assomigli a Mélenchon, adesso si trova a fare l’agitatore di popolo; Di Maio, che è sempre stato il “barricadiero”, ora si veste  da moderato. Insomma, anche sotto questo profilo, l’inversione anomala delle parti mostra la fragilità di entrambi  i progetti».

E il terzo?

«La terza considerazione è che ogni volta che un soggetto politico si divide, perdono tutti; nel senso che entrambi i partiti satelliti prendono meno voti rispetto al partito da cui provengono se fosse rimasto unito. Inevitabilmente di conseguenza assisteremo al declino dei 5 Stelle. Con ogni probabilità, della creazione di Grillo  resterà qualche partitino nato dalle sue ceneri, ma quella che è stata una forza politica che nel 2018 era riuscita a conquistare  più di un terzo dei voti degli italiani è finita per sempre».

Forse i 5S possono permettersi questa spaccatura, perché in Parlamento hanno ancora numeri importanti. Non crede?

«Sì, però il Parlamento è finito. Ha ancora otto mesi di attività e poi in primavera del 2023 si va a votare. Semmai, il vero problema che hanno i 5S è un altro. Con la riduzione dei parlamentari, l’emoraggia dei voti e il vincolo  dei due mandati, chi andrà in Parlamento l’anno prossimo sarà una pattuglia piccolissima rispetto ai numeri odierni. Quindi, chi decide chi andrà in Parlamento il prossimo anno? La mia impressione è che la rottura dipenda più da questo che da altro. È come se Di Maio avesse detto a Conte: “O ti fai da parte e lasci a me scegliere  chi andrà in lista l’anno prossimo oppure me ne vado”. Che poi abbiano scelto di dividersi sulla questione della guerra in Ucraina poco importa,  il  punto di conflitto reale, anche se nessuno ne parla, riguarda la  scelta delle candidature sicure per le prossime elezioni di primavera 2023. Chi le fa ha in mano il partito».

Per alcuni osservatori anche la Lega sembra stia attraversando una fase “critica”. Che ne pensa?

«Innanzi tutto, sarei prudente nel dire che le amministrative siano andate male per la Lega. Sotto i 15 mila abitanti ci sono solo liste civiche. Sopra i 15 mila abitanti nelle coalizioni ci sono talmente tante liste che è difficile capire chi ha preso più voti. Se in una coalizione ci sono 9 o 10 liste, può sembrare che la Lega abbia preso meno, ma gli elettori di quelle liste civiche alle politiche per chi voteranno? Queste  formazioni locali  hanno dentro di tutto e chi oggi le ha votate magari  alle politiche  voterà di nuovo Lega. A parte questa prudenza, la Lega ha due problemi».

Quali?

«Il primo: di nuovo, se diventi troppo grande, prima o poi ti dividi al tuo interno. Non può esserci un partito di taglia ‘extralarge’ che sia allo stesso tempo monolitico. Se vuoi essere un partito grande, devi accettare fazioni, frazioni, correnti... Ora si scopre che anche nel vecchio Pci esistevano almeno quattro o cinque correnti, strutturate e organizzate. Un grande partito è un partito che va sopra il 20 per cento: se vuoi essere tale, come si fa ad essere tutti uguali? La domanda, quindi, è: ha imparato la Lega a convivere con la molteplicità delle opinioni interne? Questo è il tema che la Lega deve affrontare: è un tema di democrazia interna, di come si prendono le decisioni... Non a caso chi pone più di tutti questo problema è Da Re, che da giovane ha militato nel Pci e conosce bene quanto spinoso fosse il nodo di quello che veniva chiamato  ‘centralismo democratico’ . Tuttavia, se bisogna accettare il pluralismo interno, vanno trovati i modi di far convivere le diversità di opinioni con la necessaria unità nel momento dell’azione. Lo stesso problema, in verità, ce l’ha anche la Chiesa!»

E poi?

«Il terzo problema della Lega – ancora più complicato – è di posizionamento politico. Essere partito di lotta e di governo non ha mai funzionato. O sei di lotta o sei di governo. Stare con una gamba da una parte e una dall’altra non ha portato bene  a nessuno: la vicenda di Berlinguer negli anni del cosidetto ‘compromesso storico’ cosituisce un buon esempio delle contraddizioni nelle quali ci si impiglia. La gente non ti capisce: sei al governo o sei all’opposizione? Su questo punto la Lega balbetta, specie in relazione all’Europa e alle grandi opzioni internazionali. Finisce che chi guadagna di più è chi ha una figura netta, come la Meloni, la quale interpretazione con coerenza la parte del  classico partito di opposizione. E’ inevitabile: tutti coloro  che sono contro l’attuale governo votano lei. Non c’entra che sia brava o meno, è una questione di posizionamento. Non a caso, sull’altra sponda dello spazio politico, tutto sommato il Partito democratico non va male – quantomeno mantiene le posizioni senza affanno – e non è indifficoltà proprio perchè ha scelto una collocazione come  partito di governo, senza se e senza ma».

Alla luce di quanto sta accadendo in alcuni partiti italiani, alcuni osservatori concludono che i populismi stiano “retrocedendo”. Che ne pensa?

«Sarei più prudente. Tutti tendono a valutare i populismi guardando ai soggetti che li propongono,  che siano Le Pen, o Melenchon, o Grillo... Per me è un’ottica sbagliata. La domanda da porsi è diversa: questi signori prendono i voti per quello che dicono o per qualche altro motivo che ha a che fare con gli elettori? La mia interpretazione è che  queste persone sono semplicemente dei treni su cui la gente sale e poi dai quali, ad un certo punto, smonta. Non è tanto l’offerta che va guardata, cioè i partiti, quanto la domanda, vale a dire le ragioni per cui in tutte le parti del mondo gli elettori si sono radicalizzati. Questo è il punto».

Immagino che non condivida neppure l’analisi di chi ritiene che l’elettorato stia premiando le posizioni più moderate...

«No, anzi, l’elettorato si è radicalizzato ulteriormente un po’ ovunque. La radicalizzazione degli elettorati in Occidente non è per nulla terminata. Al contrario!: basta vedere quello che accade in Usa, Francia, Gran Bretagna o in Germania. C’è da chiedersi come mai le istituzioni e la politica non riescano a dare risposta a insoddisfazioni così radicali negli elettori, le quali hanno a che fare con problemi quotidiani, tipo il reddito, la casa, il lavoro, la sicurezza... Problemi elementari».

Perché, secondo lei, questa frattura?

«Tutte la classi dirigenti occidentali, comprese quelle populiste, ogni volta che arrivano al potere – per usare un’espressione di papa Francesco – “perdono l’odore delle pecore”. E quando perdi l’odore di pecora è finita. C’è un problema di rapporto col popolo che è sempre più evidente nelle classi dirigenti occidentali. E ha a che vedere con la capacità di dare delle risposte ai problemi di grandissime fette di popolazione. Questo è un tema complicatissimo, però va affrontato: i motivi dell’insoddisfazione popolare crescente si concentrano sull’indifferenza della politica e delle classi dirigenti nei confrotni delle preoccupazioni di chi  non vive nelle zone Ztl, nei centri storici delle grandi città».

Un esempio?

«Tutte le classi dirigenti e i giornaloni sono più interessati ai problemi di minoranze – penso ai diritti individuali, cose tutte legittime e importantissime, per carità – ma poco o nulla si parla della qualità della vita della povera gente o delle classi medio basse. Si tratta di questioni che non bucano mai la prima pagina,  non fanno notizia. Qui sta il problema: si è creata una frattura tra “radical chic” e popolo, con un’attenzione eccessiva alle rivendicazioni delle  piccole minoranze -lo ripeto, legittime- rispetto ai problemi di larghe maggioranze. Pertanto – e chiudo – l’interrogativo strategico  è il seguente: quale  segnale ci manda l’elettorato quando si esprime in modo così radicalizzato come è avvenuto  in Francia? È colpa o merito  della Le Pen oppure c’è dell’altro su cui riflettere? Si potrebbe metterla così, guardando agli elettori invece che ai leader:  i cittadini  che non trovano altra maniera per manifestare il loro disagio  se non in questo modo, cosa vogliono dirci? Cosa chiedono alla politica, alle istituzioni, alle classi dirigenti? È questa la domanda inevasa alla quale tentare di dare una risposta».

Alessio Magoga

Pubblico dominio