Salvataggio in mare. Le ong: "Siamo le ambulanze del mare, non i taxi"

UNA VIA SICURA Cosa fanno davvero le navi umanitarie nel Mediterraneo? Cinque domande ad Alessandro Porro, presidente di Sos Mediterranée Italia sulle bufale più diffuse: dal pull factor all'indicazione del porto di sbarco. Ecco la sesta puntata del reportage di Redattore Sociale in collaborazione con Acri

Salvataggio in mare. Le ong: "Siamo le ambulanze del mare, non i taxi"

Li hanno chiamati “taxi del mare”, li accusano di essere un fattore di attrazione, un “pull factor” che incentiva le partenze (e le morti) nel Mediterraneo. Ma dal 2015, nonostante le accuse, l’attività delle navi umanitarie che operano nel salvataggio in mare non si ferma. In questa lunga intervista con Alessandro Porro, presidente di Sos Mediterranée proviamo a fare chiarezza su cinque questioni chiave spesso sollevate da chi vuole ostacolare l’attività delle ong.

In questi anni si è spesso parlato di search and rescue. E, non di rado, è stato messo in dubbio l’operato delle navi umanitarie delle organizzazioni non governative (ong). Vi hanno chiamato “taxi del mare” per sottolineare che l’attività è quella di mero trasporto, non di soccorso. Nello specifico: come avviene un salvataggio in mare? In che modo si intercetta un barcone in difficoltà e quando si decide di intervenire?
Più che mettere in dubbio, abbiamo assistito a una vera e propria criminalizzazione dei soccorritori, accusati di ogni nefandezza. Noi non siamo i “taxi”, ma le ambulanze del mare. Rimuovere le navi di soccorso non significa altro che aumentare la mortalità lungo la rotta migratoria del Mediterraneo centrale, la più pericolosa al mondo. Proprio come togliere le ambulanze dalle strade non eliminerebbe gli incidenti, ma aumenterebbe le vittime. Peraltro, Sos Mediterranée si è sempre posta l'obiettivo di rispettare la legge, prima di tutto la legge del mare, e cioè quel corpus di leggi internazionali che regolano il soccorso in mare. Dunque, quando effettuiamo un soccorso, rispettiamo non solo le previsioni del diritto internazionale, ma tutte le “buone pratiche” che si sono consolidate nel corso degli anni. Innanzitutto, quando il ponte di comando della nave riceve la notizia che esiste un “target”, cioè un'imbarcazione in pericolo, sul quale può intervenire, comunica tempestivamente a tutte le autorità competenti di stare alterando la propria rotta e di starsi dirigendo a tutto motore verso le coordinate indicate. In seguito, se l'imbarcazione in pericolo viene avvistata, si procede a comunicare anche questo. Si comunica un'altra volta a soccorso concluso, dando i primi dati sulle persone soccorse, e un'ultima comunicazione viene inviata per ricapitolare tutte le informazioni, fornire tutte le indicazioni a disposizione sull'identità, lo stato di salute e le condizioni dei naufraghi, oltre ovviamente a richiedere un porto sicuro per il loro sbarco. Quando avvistiamo un “target”, mettiamo in acqua i Rhib, cioè le lance da soccorso. La prima cosa da fare è analizzare quale sia la situazione a bordo dell'imbarcazione in pericolo, quante persone grosso modo la occupino, se sia sbilanciata, se si senta odore di benzina, se vi siano persone morte o ferite sul fondo della barca. Poi si procede a calmare le persone a bordo, facendogli innanzitutto capire che siamo lì per soccorrere. Poi si stabilizza lo scafo e si distribuiscono i giubbotti salvagente. Solo alla fine di questo procedimento si trasferiscono i naufraghi a bordo delle lance e si portano sulla Ocean Viking che attende a distanza di sicurezza. Si inizia da bambini, persone malate o in difficoltà e donne.

Tra le accuse più ricorrenti c’è quella di essere un fattore di attrazione (pull factor). Cioè i migranti, ma anche gli stessi trafficanti di esseri umani, sapendo che ci sono navi delle ong pronte a soccorrere le persone in difficoltà, non esiterebbero a far partire le carrette del mare su quella che è la rotta più pericolosa al mondo.
Diversi studi statistici, con dati reali, hanno dimostrato negli ultimi anni che il cosiddetto "pull factor" non esiste. Non esiste cioè una correlazione significativa tra la presenza delle navi di soccorso e il numero delle partenze. Lo dicevamo prima con l'esempio delle ambulanze, ma non servono esempi per rendersi conto che è un argomento pretestuoso, che viene utilizzato per colpire le Ong per ragioni che sfuggono alla nostra comprensione. Forse il motivo per cui le navi di soccorso sono così fastidiose, è che rappresentano gli occhi della società civile europea in mare. Se non ci fossero navi come la Ocean Viking, chi racconterebbe i naufragi davanti ai quali l'Italia e l'Europa voltano le spalle? Chi racconterebbe i respingimenti illegali portati a termine dalle autorità libiche, addestrate e finanziate dall'Italia e dall'Europa? Forse è questo il motivo per cui avere degli “occhi” in mare è così scomodo per chi ha messo in piedi questo stato di cose. Alcune persone, è vero, vengono costrette a partire dai trafficanti senza scrupoli che gestiscono questi traffici. Ma questo non ha nulla a che fare con chi è in mare solo per soccorrere, per tamponare, per provare a salvare poche centinaia di vite.

Perché la maggior parte delle persone soccorse in mare poi sbarca in Italia e non in altri paesi europei? Solo una volta, nel novembre scorso, proprio Sos Mediterranée si è diretta in Francia, con a bordo i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo. È, dunque, fattibile e replicabile?
La maggior parte delle persone soccorse deve sbarcare in Italia o a Malta per ragioni geografiche e perché così prescrive il diritto internazionale. Le leggi infatti stabiliscono che i naufraghi siano fatti sbarcare nel porto sicuro più vicino. Intendendo come tale un luogo dove tutti i diritti umani siano rispettati. È evidente che la Libia non rispetti tali requisiti. È meno evidente ma altrettanto vero che neppure la Tunisia sia da considerare un porto sicuro. Pertanto le opzioni restanti sono due: Malta o Italia. Il fatto che la Ocean Viking sia andata in Francia, a Tolone, per poter far sbarcare - e quindi completare il soccorso – di 234 persone nello scorso novembre, rappresenta il fallimento delle politiche europee. In particolare, la nave è stata costretta ad affrontare quel viaggio proprio dalla gravissima violazione del diritto internazionale compiuta da Malta e dall'Italia che non hanno assegnato un porto sicuro per quasi 20 giorni. La situazione a bordo, nel frattempo, si è aggravata a tal punto che non ci è rimasta altra scelta. Quindi no, non è una situazione normale o replicabile. E non dovrà accadere mai più. Questo non significa che l'atteggiamento degli Stati dell'Europa centrale e settentrionale sia da lodare. Dal 2016, dalla nostra fondazione, non ci stanchiamo di ripetere che gli Stati costieri come Malta e Italia non possano essere lasciati soli di fronte a questa sfide, e che un meccanismo razionale di sbarco e ricollocamento condiviso tra tutti gli Stati europei sia assolutamente necessario. Questo non significa però che lo sbarco e l'accoglienza non siano di competenza degli Stati che geograficamente si trovano al centro del Mediterraneo, come l'Italia.

Un tema su cui si insiste è relativo allo stato di bandiera, che secondo alcuni responsabili politici sarebbe titolato a farsi carico dell'accoglienza e delle richieste di asilo delle persone salvate in mare. Perché non vi rivolgete al vostro stato di bandiera dopo un soccorso?
Anche questa è una fake news che da anni viene ripetuta all'opinione pubblica. Gli stati di bandiera non hanno alcuna competenza su ciò che avviene in mare, a livello di soccorso. Se così fosse, le centinaia di navi mercantili, battenti le più disparate bandiere di tutto il mondo, che in questi anni hanno effettuato dei soccorsi in mare, si sarebbero dovute preoccupare di coinvolgere la Liberia, Panama, le Isole Marshall o le Bahamas in ogni soccorso condotto. È evidente che questo sarebbe assurdo e privo di senso, e infatti nessuno chiede ai capitani di queste navi di comportarsi così. Per le navi ong, invece, il discorso pubblico sembra essere diverso. Ancora una volta, non capiamo fino in fondo quale sia il motivo di tanto accanimento nei nostri confronti – se teniamo peraltro presente che tutte le navi ong portano in Italia solo il 14% delle persone che sbarcano – ma viene il sospetto che la nostra attività sia ormai diventata un feticcio politico da sbandierare ogni qualvolta l'opinione pubblica deve essere distratta o bisogna addossare a qualcuno la colpa del fatto che esistano le migrazioni. Siamo un facile capro espiatorio.

C’è chi dice che per evitare le morti in mare bisogna impedire le partenze dalla Libia o da altre sponde del Mediterraneo e concentrare gli sforzi per far arrivare le persone in aereo, con i corridoi umanitari e le altre vie legali. È una tesi che vi convince?
Siamo convinti che sia necessario potenziare sempre di più le vie sicure e legali per lo spostamento delle persone che ne hanno bisogno. Come ci capita di ripetere spessissimo, con una provocazione, il nostro obiettivo di lungo termine è sparire: vorremmo tutti che non esistesse il problema del soccorso in mare, o che quantomeno, come prevede la legge, gli Stati se ne facessero davvero carico. Tuttavia, al momento, non ci sono le condizioni per pensare di abbandonare il soccorso in mare. I numeri lo testimoniano: negli ultimi 5 anni più di 20mila persone sono morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo Centrale. Una strage silenziosa e senza fine, davanti alla quale è illegale, oltre che immorale, voltare le spalle. Noi non lo faremo: continueremo a salvare il più alto numero di persone possibile fino a quando potremo. O fino a quando, come tutti speriamo, non serviremo più.

UNA VIA SICURA  è un reportage in dieci puntate realizzato e pubblicato da Redattore Sociale in collaborazione con Acri. Il lavoro giornalistico, curato da Eleonora Camilli con il supporto grafico di Diego Marsicano e la supervisione di Stefano Caredda, affronta da più punti di vista il tema delle migrazioni, raccontando alcune delle esperienze supportate da Acri nel suo Progetto Migranti.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)