Una mano alla natura dopo Vaia. Il progetto del Bosco degli 800 anni

Il Bosco degli 800 anni è un progetto avviato l’anno scorso dall’Università di Padova per ripopolare una superficie di circa otto ettari alle pendici del Monte Zebio ad Asiago, pesantemente danneggiata dalla tempesta. Grazie al sostengo di cittadini, enti e aziende il percorso che prevede la piantumazione di abete bianco, larice, faggio può procedere fino al completamento nell’autunno 2024

Una mano alla natura dopo Vaia. Il progetto del Bosco degli 800 anni

«Noi non ci sostituiamo assolutamente alla natura, ma la aiutiamo, la indirizziamo, se così si può dire, in base alle conoscenze scientifiche in nostro possesso, verso la formazione di boschi molto più resistenti e resilienti». Raffaele Cavalli, docente del dipartimento di Territorio e sistemi agro-forestali dell’Università di Padova è il responsabile scientifico del progetto “Il Bosco degli 800 anni”, l’iniziativa avviata l’anno scorso il cui obiettivo è rinverdire con piantine di conifere e latifoglie) una superficie di circa otto ettari alle pendici del Monte Zebio ad Asiago, pesantemente danneggiata dalla tempesta Vaia nel 2018 che ne ha distrutto completamente il patrimonio forestale. Lo scorso martedì 5 dicembre, l’Università di Padova ha organizzato un appuntamento a conclusione della campagna di raccolta fondi, una tappa fondamentale per proseguire il cammino – anche economico – che si concluderà nell’autunno del 2024 con la messa a dimora di tutte le piantine. Durante la serata è emersa la generosità che si è cucita attorno al bosco: da singoli cittadini con donazioni di 10 euro per una pianta a grandi aziende, enti e sostenitori che hanno adottato un ettaro elargendo la somma di ventimila euro.

Un impegno sulle orme e sugli scritti di Mario Rigoni Stern che ne criticava le modalità di rimboschimento adottate sull’Altipiano dei Sette Comuni alla fine della prima guerra mondiale: nella lectio in occasione della consegna della laurea honoris causa, sosteneva infatti che «l’abete rosso uniformemente impiantato su aree abbastanza ampie cresceva sì con sviluppo annuale generoso, ma era anche molto fragile nel suo equilibrio… certo è che a considerare questo errore, non si capisce perché nel rimboschimento di quel dopoguerra non si pensò anche al faggio, all’abete bianco, al larice e a latifoglie adatte al terreno e al clima dell’Altipiano che avrebbero permesso la nascita di una foresta più naturale». Una foresta più naturale, per l’appunto. Ed è così che il progetto Bosco degli 800 anni ha introdotto l’abete bianco, il larice e il faggio come specie principali, a cui si aggiungono specie “di accompagnamento” come la betulla, il sorbo montano, il sorbo degli uccellatori e altre latifoglie: «La nostra metodologia è quella di riprodurre proprio la natura – prosegue Cavalli – nel senso che mettiamo a dimora un numero elevato di piante, quindi arriviamo a circa 2.500 piantine per ettaro, ma nell’evoluzione degli andamenti si ridurranno a quelle 1.800 piante che saranno quelle definitive. Ed è quello che fa la natura, che semina migliaia di semi per poi ottenere qualche centinaio di alberi adulti. Abbiamo lo stesso approccio: queste aree noi le monitoriamo, le controlliamo ma non interveniamo a proteggerle. Ci sarà poi una selezione naturale». La varietà delle specie garantisce la biodiversità del luogo e allo stesso tempo favorisce l’evoluzione futura di un bosco resistente e resiliente ai cambiamenti climatici e possibili eventi naturali estremi. Perché è sempre necessario ribadirlo, bisogna aver la consapevolezza di far fronte comune per contrastare i cambiamenti climatici: «Anche nel passato sono avvenuti fenomeni di riscaldamento di questo tipo, cioè improvvisi soprattutto per le eruzioni vulcaniche e l’aumenti dell’anidride carbonica – chiosa Raffaele Cavalli – Quello che è preoccupante e che deve preoccuparci è la velocità con cui questi fenomeni stanno avvenendo. E le conseguenze sono importanti perché non è solo il caldo che patiamo d’estate, ma è l’energia che i sistemi naturali accumulano e che poi esplodono: nella logica delle cose c’è un accumulo e poi una restituzione. Noi parliamo di caldo, di freddo, ma in realtà dobbiamo parlare di energia che il sistema terrestre accumula e poi deve in qualche modo sfogare».

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