Dov’è finita la finanza cattolica? Servirebbe tornare a un'altra idea di lavoro e di profitto

È importante il benessere della comunità che vive attorno a quella fabbrica, o quello dei quattro ricchi azionisti che fanno denaro con il denaro?

Dov’è finita la finanza cattolica? Servirebbe tornare a un'altra idea di lavoro e di profitto

In questi giorni in cui si sta consumando una battaglia di azionisti ai vertici di Generali, con riflessi in Mediobanca e Unicredit, viene a galla una riflessione: dov’è finita la cosiddetta “finanza cattolica”?

Non è passata un’era geologica da quando operavano e prosperavano in Italia banche, finanziarie e assicurazioni di matrice cattolica. Nate dalla svolta della Rerum novarum, cresciute nel corso del Novecento, sono in questi ultimi anni tramontate, quindi sostanzialmente sparite. L’ultima – Cattolica Assicurazioni – è diventata l’anno scorso una costola di Generali. Rimane ancora qualche piccolo istituto di credito, ma il capitolo “finanza cattolica” è ormai consegnato ai libri di storia economica.

Per sempre? Probabilmente sì. Le vecchie realtà non ci sono più, frutto appunto di un mondo che non c’è più. Non mancano capitani d’impresa o manager di matrice cattolica; ma i contenitori nei quali agiscono sono perfettamente integrati nell’economia capitalistica di mercato. Laica o cattolica non ha più alcun senso, così come la classificavamo fino ad una ventina d’anni fa.

Ce ne sarebbe bisogno? Eccome! Le “fabbriche dei soldi” innervano l’intero tessuto economico, muovendo finanziamenti e attività secondo principi che ora sono ridotti al mero profitto, alla remunerazione dei capitali investiti. Chi lavora è ormai un fattore di produzione, non il cuore di un’attività lavorativa. Un’attività vale solo se crea “margini”, il più abbondanti possibili. L’occupazione, la buona occupazione è un corollario.

Da qui precariato; da qui retribuzioni in calo; da qui repentini spostamenti di attività a seconda del costo del lavoro; da qui una corsa incessante a tagliarlo, il costo del lavoro, piuttosto che a investire e innovare prodotti e servizi.

Da qui un incessante impoverimento delle competenze, del know how: è importante saper fare un’auto, o “costare meno”? È importante il benessere della comunità che vive attorno a quella fabbrica, o quello dei quattro ricchi azionisti che fanno denaro con il denaro?

L’altro giorno il leader del gruppo automobilistico Stellantis, Carlos Tavares (Peugeot, Citroen, Fiat, Opel, Alfa Romeo, Jeep…), ha dichiarato: le fabbriche italiane sono meno redditizie delle altre che il gruppo ha in varie parti del mondo. A fare la differenza non è stata la capacità di produrre una Maserati piuttosto che un triciclo motorizzato, ma appunto la remunerazione del capitale, il profitto. Necessario, ma non fino al punto di farci diventare suoi servi.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)