“Non tacete, urlate come me. E fatevi aiutare”. La storia di Grazia, vittima di violenza

Due anni fa, dopo l'ultima violenta aggressione, ha denunciato il compagno, padre delle sue figlie: “E' stata durissima: quando sei dentro la violenza, hai un istinto di conservazione. Per riuscire a fare un salto in avanti, serve aiuto. Io l'ho trovato, ma bisogna sostenere queste donne guerriere”

“Non tacete, urlate come me. E fatevi aiutare”. La storia di Grazia, vittima di violenza

“Alle donne raccomando di dire no, di non tacere, ma anche di essere consapevoli che da sole non se ne esce. La violenza è subdola, arriva quando meno te l'aspetti e non scende a compromessi. Se non scatta qualcosa interiormente, se non c'è qualcuno accanto a te in questa battaglia, è difficile farcela. A volte si torna indietro, è normale: ma questo non deve scoraggiarvi: non significa che non potete uscirne”.

M. sceglie di farsi chiamare Grazia, il nome di sua zia, perché “è stata un esempio di forza e di coraggio”. Quella forza che lei esprime, oggi, nel voler raccontare, quasi gridare la sua esperienza, perché non voglio che il mio sia un dolore sordo, ma un urlo, che possa servire a salvare altre donne che subiscono violenze e vivono come prigioniere”. Grazia queste violenze le ha subite per oltre sette anni da parte del compagno, padre di due delle sue tre figlie: “Sono passata attraverso tutte le fasi: dai primi segnali, come i rimproveri perché sbagliavo qualcosa in casa, allo stalking, agli insulti, fino alle vere e proprie aggressioni fisiche”. L'ultima, violentissima, a dicembre 2021: “Una serie di cazzotti in viso che mi hanno completamente sfigurato: sono stata ricoverata per diversi giorni, sono sopravvissuta per miracolo. E' stato in quei giorni in ospedale, che sono diventata più lucida e consapevole: ho capito che non potevo andare avanti così. Dovevo sottrarre a quella violenza non solo me che la vivevo, ma anche le mie figlie, che qualche volta assistevano”.

Non è stato facile, Grazia lo sottolinea tante volte: “Quando ero dentro la violenza, avevo un istinto di sopravvivenza, come donna e come madre. Il male tu lo conosci, finisci per appartenerci, ti fa credere che oltre non poi andare, non puoi fare quel salto in avanti di cui hai bisogno per salvarti. Venirne fuori significava rompere il rapporto: un fallimento grande, non solo di coppia, ma di famiglia. Bisogna capire che denunciare fa male, molto male. Io denunciavo una persona che amavo veramente. Lo avevo già denunciato per stalking e maltrattamento familiare: dall'ospedale, l'ho denunciato per la seconda volta: una volta dimessa, dono andata personalmente dai Carabinieri, grazie anche al sostegno dei miei genitori. E così ho fatto quel salto in avanti per tirarmi fuori: ma è stato doloroso, ho avuto disturbi postumi, sono andata in depressione perché il dolore era tanto, per me ma anche per le mie figlie. La più grande aveva 18 anni, la più piccola solo 6, l'altra 13: le ho strappate alla loro quotidianità, agli amici, alla casa, alla scuola. E' stato doloroso, fatico ancora a parlarne, a rimettere insieme i pezzi: sono passati due anni, ma per l'elaborazione della violenza non sono molti. Però voglio parlare, perché io ce la sto facendo, grazie anche a mamma e papà, che ormai da un anno e mezzo ci fanno vivere a casa loro, con tutti i problemi che questo comporta”.

Dopo la denuncia, “è iniziata la seconda guerra, ma stavolta a favore nostro, per la nostra rinascita – ricorda Grazia – I Carabinieri mi hanno detto che meritavo di più e mi hanno messo in contatto con Spazio donna, il centro nonviolenza gestito da BeFree: qui ho trovato un supporto fondamentale. Rispettavano i miei tempi, mi portavano a comprendere quello che mi succedeva, mi aiutavano a non tornare indietro. Mi hanno spiegato, per esempio, che l'aggressione successiva è sempre peggiore della precedente, perché ogni volta che la donna torna indietro, è come se consegnasse all'uomo un attestato in cui dichiarano che lui fa bene a comportarsi così. Andavo al Cav più di una volta a settimana e questo mi ha aiutata ad essere determinata: lui i primi periodi mi cercava, veniva sotto casa, io avevo molta paura. Siamo stati braccati in casa, è stato molto brutto. In un mese, fino all'allontanamento, credo di aver chiamato la polizia almeno 20 volte: mi dicevano che, se non lo coglievano in flagranza, non potevano arrestarlo. Un giorno, mi ha dato appuntamento in un bar: gli ho detto che sarei andata, invece gli ho mandato la polizia. Finalmente, avevo conquistato la lucidità che tante volte mi era mancata. Così lo hanno arrestato: è stato dentro due anni e 7 mesi, ha avuto delle attenuanti. Ora è ai domiciliari e ha il braccialetto elettronico: io la paura ce l'ho sempre. Adesso il mio obiettivo - che prima era un sogno ma ora è appunto un obiettivo - è portare via le ragazze e andare a vivere in un posto in cui lui non possa trovarci. Il fatto che sappia dove siamo, non mi fa stare tranquilla. Finché non aveva il braccialetto, non riuscivo a dormire la notte. Anche adesso, però, non mi sento tranquilla”.

Grazia vive ancora dai suoi genitori. “Non mi hanno proposto una struttura, nemmeno in quella fase di emergenza in cui lui veniva continuamente sotto casa. Ho chiesto ai servizi sociali di poter essere trasferita in una casa famiglia, anche perché avevo bisogno di ricostruire il mio nucleo, non è facile vivere tutti insieme, in una casa piccola, con i miei genitori. Però gli assistenti sociali dicono che una casa famiglia idonea alla nostra situazione non c'è: io ho molta fiducia nei servizi sociali e quindi seguo la loro indicazione. Ho chiesto una casa popolare, ma sono ancora 81a in lista di attesa: mi hanno detto che devo avere una persona disabile in famiglia, o vivere in macchina, per riuscire ad avere un'assegnazione. Questo non lo trovo giusto”:

Di qui, l'appello di Grazia: “Le istituzioni devono capire che una donna che denuncia non può essere lasciata sola, ma deve essere sostenuta. Io tengo la testa alta, soprattutto per essere di esempio per le mie figlie. Sto facendo tutto il possibile per ripartire e, piano piano, ce la sto facendo. Grazie al Cav, ho frequentato un corso presso l'istituto Meschini di Roma, per diventare Oss. Mi avevano detto che era molto impegnativo e in effetti lo è stato: 1.000 ore di lezione e 500 di tirocinio. Ho incontrato docenti molto bravi, che ci hanno contenute, ma ci sono anche stati aggrappati alle caviglie, per non farci perdere. Eravamo tutte donne con vissuti di violenza, abbiamo formato un gruppo molto unito, ci siamo aiutate a vicenda e continuiamo a essere di aiuto l'una per l'altra. Io, che secondo il mio compagno ero una buona a nulla senza cervello, non ho mai preso meno di 30/30 agli esami, mi sono diplomata con il massimo dei voti e dopo sono stata un treno, nella ricerca di un lavoro: sono stata tra le prime a trovarlo, dopo la fine del corso. Oggi lavoro presso una struttura in cui faccio quello per cui mi sono formata: l'operatrice socio-sanitaria, mi occupo di assistenza domiciliare integrata, soprattutto con anziani e fragili. Siccome ci sono stata, nella fragilità, metto il mio vissuto al servizio di qualcosa”.

In questi giorni, in cui si parla tanto di violenza, “mi chiedo spesso perché io mi sia salvata e altre no: la risposta, forse, è che così posso essere un mezzo per salvare altre. Scendo in piazza tutte le volte che posso e dico alle donne di non tacere. Ma dico anche agli altri, alle persone che sono accanto a queste donne, di non giudicarle quando chiedono aiuto. Troppe volte si sentono rispondere 'Tu sei matta', o non ricevono risposta alla loro richiesta di aiuto. Non giudicate, ma sostenete queste donne, che trovano il coraggio di denunciare. Ora, il mio obiettivo è ritrovare piano piano una stabilità economica, ma anche la fiducia: voglio prendere il diploma e poi la laurea in Sociologia. E poi voglio prendere una casa e ricostruire una relazione, con una persona che mi meriti: noi che abbiamo subito una violenza abbiamo una grande fragilità emotiva e dobbiamo stare attente a non diventare dipendenti da un altro uomo. Complici sì, ma dipendenti no. Però mi sento forte, una guerriera, perché ho ricominciato da zero, dopo che mi hanno tolto tutto: la casa, la macchina, a 46 anni mi sono ritrovata senza niente, ma sto trasformando un grande fallimento in una grande opportunità. So che avrei potuto essere una dei tanti numeri drammatici dei femminicidi di cui oggi si parla un po' di più. Giulia sta risvegliando gli animi: ogni volta che parlo e combatto, lo faccio per lei e per le altre che non ci sono in più”.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)