Servono soldi, non parole. Le difficoltà del governo

I beni e i servizi di cui un Paese ha bisogno non si finanziano con gli slogan.

Servono soldi, non parole. Le difficoltà del governo

Il governo ha bisogno di soldi. Il nostro Paese ha un debito pubblico elevatissimo e questo vuol dire che non ha scorte a cui attingere. Lo si è visto in occasione della pandemia: se non fosse intervenuta l’Unione europea con quell’inedito e colossale piano che in Italia è stato declinato come Pnrr, non si sa come sarebbe andata finire. E bisognerebbe non dimenticarlo anche in vista del prossimo appuntamento elettorale per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Il governo ha bisogno di soldi perché i beni e i servizi di cui un Paese ha bisogno non si finanziano con gli slogan. Il taglio del cuneo fiscale – il capitolo principale dell’ultima legge di bilancio con uno stanziamento di 10 miliardi – è stato rinnovato per un anno soltanto e facendo altro deficit: dopo le europee si vedrà. Ma bisogna cominciare a pensarci ora. Il problema delle risorse si ripresenta continuamente. Per una riforma a dir poco controversa come l’autonomia differenziata si sta mettendo a punto un complesso sistema di procedure, nessuno però finora ha spiegato come si finanzieranno i livelli essenziali delle prestazioni, architrave di tutta l’operazione. Anche per una riforma benemerita che, al contrario dell’autonomia, gode di un largo consenso, vale a dire quella dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, il processo di attuazione ha compiuto un primo passo, ma c’è stato bisogno di ridurre importi e platea (la fase sperimentale coinvolgerà soltanto 25 mila persone). Intanto però è crollato il numero delle famiglie che beneficeranno dell’assegno d’inclusione, che pure già in partenza erano molte di meno di quelle che in passato ricevevano il reddito di cittadinanza. Il governo ne ha aveva stimate 737 mila, ma al primo giro di pagamenti sono risultate 287 mila. Sono veramente troppo poche, c’è qualcosa che non va nel sistema, a meno di non ritenere che nel frattempo la povertà si sia rarefatta. Sta di fatto che nell’esecutivo ora si guarda con speranza alla possibilità di risparmiare una quota non marginale dei 7 miliardi stanziati per l’anno in corso.
Nel 2024 il nostro prodotto interno lordo crescerà molto meno di quanto previsto dal governo in autunno (+0,6% secondo la Banca d’Italia, contro 1,2%) e il calo dell’inflazione farà bene alle tasche degli italiani ma non ai conti pubblici, almeno in una prima fase. Il ministero dell’economia sta quindi ricorrendo a tutti gli strumenti praticabili per reperire risorse, dall’emissione di nuovi titoli di Stato alle parziali privatizzazioni delle grandi aziende nazionali. Anche i fondi ricevuti in base al Pnrr e depositati in attesa dell’utilizzo effettivo, vengono temporaneamente impiegati per finanziare la spesa corrente riducendo l’emissione di nuovi titoli (scaricando però tutto il peso sul 2025 e il 2026 quando bisognerà pagare concretamente i progetti del Pnrr).
Quello che dovrebbe essere uno strumento privilegiato per recuperare risorse, il contrasto all’evasione fiscale, viene invece sistematicamente depotenziato da provvedimenti quanto meno discutibili e da messaggi contraddittori. L’ultimo episodio riguarda il concordato preventivo biennale. In sostanza un accordo tra fisco e contribuenti (partire iva, piccole imprese, autonomi) che blocca per due anni l’importo da pagare anche se i ricavi dovessero essere maggiori e soprattutto evitando gli accertamenti. Una misura che nelle intenzioni dichiarate dal governo dovrebbe servire a far emergere l’illegalità. Purtroppo l’esperienza insegna che questo tipo di misure si rivela nella maggior parte dei casi una forma indiretta di condono. Comunque la prima versione del decreto conteneva una norma di buon senso: al concordato potevano accedere soltanto i contribuenti considerati affidabili sulla base degli indici in vigore. Un modo per premiare i comportamenti virtuosi. Ma nella versione definitiva questo limite non esiste più.

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Fonte: Sir