Un anno di guerra in Ucraina: niente di nuovo sul fronte occidentale?

Il segretario Nato Stoltenberg, aggiornando la narrazione in uso, ha informato che la guerra in Ucraina non è iniziata nel febbraio scorso, derivando bensì da un conflitto già in corso.

Un anno di guerra in Ucraina: niente di nuovo sul fronte occidentale?

Il più noto romanzo di Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, descrive le vicende di un gruppo di studenti tedeschi che, eccitati dal clima bellicistico e dalla retorica degli insegnanti, nel 1914 si arruolano volontari: chi finendo tragicamente, chi sopravvivendo, intimamente svuotato, all’assurda ecatombe del suicidio europeo.

A un anno dall’invasione dell’Ucraina ne assumiamo il titolo, non per alludere allo stallo sul teatro di guerra (per noi invero orientale), ma perché le dichiarazioni dei protagonisti occidentali all’ultima Conferenza di Monaco sono la cartina di tornasole degli ultimi decenni di politica internazionale, sullo sfondo dell’assurdo in atto.

Il segretario Nato Stoltenberg, aggiornando la narrazione in uso, ha informato che la guerra in Ucraina non è iniziata nel febbraio scorso, derivando bensì da un conflitto già in corso: non in Donbass, ma quello latente patito da un Occidente minacciato da est, in ragione della quale Kiev, per il bene del mondo libero, riaprirà il processo di adesione Nato ora interrotto. Con il conforto della retrodatazione si potrebbe tuttavia ben risalire alla cantierizzazione dell’ordine unipolare dopo il crollo dell’Urss, presto frustrata da potenze con aspettative multipolari in un contesto globalizzato.

Stoltenberg e il sottosegretario Usa Blinken hanno sostenuto la necessità di sanzionare chi favorisca il riarmo russo e, per l’Europa, il dovere di recidere i canali anche con altri autoritarismi, Cina in testa. Le abilitazioni asimmetriche a intrattenere relazioni con più utili autocrazie suggeriscono, con le loro ovvie contraddizioni, la riedizione della Cortina di ferro. Ma in una versione differente dall’originale. In essa la schiettezza dell’antagonismo dettava un’ostile ma reciproca legittimazione, con una prudenza che permetteva a Usa e Urss di addivenire a transazioni pur di evitare la collisione: elemento la cui carenza, oggi, si rivela nell’oblio delle basi elementari della negoziazione, che impongono di preparare la doppia lista degli obiettivi conseguibili e delle concessioni ammissibili.

All’insistenza di Stoltenberg sulla spesa militare al 2% del pil di ciascun membro Nato fanno eco i rilanci sull’ipotesi del 4% in caso di recessione, per garantire i valori assoluti degli stanziamenti. Il che, a detrimento di altre voci di bilancio, suggerisce di agganciare la ripresa economica al comparto bellico, emulando il complesso militare-industriale Usa: altra differenza rispetto ai tempi in cui l’ombrello statunitense si asteneva dall’imporre simili oneri.

Il premier britannico Sunak ha chiesto di modificare il Trattato nordatlantico, per intervenire contro Mosca superando i vincoli dell’articolo 5. Ciò conferma il profilo di un’alleanza militare non più difensiva, a giudicare dalle formule elusive di “guerra preventiva” e “interventismo umanitario” applicate per agire in Iraq e Libia. Nell’odierna cifra unipolare, essa tende a erodere gli statuti di neutralità e di prestigiosa terzietà fondamentali per le mediazioni negli organismi internazionali. Oggi invece persino la Finlandia, assieme all’asse baltico-polacco, accredita il Forum di Liberazione della post-Russia impegnato a tratteggiare ipotesi di disintegrazione della Federazione. Al punto di stimolare a Mosca l’idea di riformare la dottrina militare nucleare per adeguarla a quella statunitense, passando dall’uso intimidatorio di un ordigno tattico contro chi minacci la sicurezza dello Stato al first strike strategico per annientare la capacità di risposta. A quanti temono l’escalation atomica Stoltenberg ricorda che non esistono opzioni senza rischio, mentre la vittoria russa sarebbe il danno peggiore. D’altronde gli analisti dei vertici Nato assicurano che, se fosse stato conseguente agli avvertimenti, il Cremlino avrebbe già lanciato le testate: l’umanità confidi nell’infallibilità di previsioni senza appello in caso di errore.

Aprendo da remoto i lavori di Monaco, Zelensky ha lanciato la parola d’ordine: non esistono alternative alla vittoria. Il suo ministro Kuleba ha rincarato sulla priorità della vittoria rispetto alla pace a ogni costo, spalleggiato dalla proposta di Sunak e von der Leyen di raddoppiare le forniture d’armi. Meglio non chiedere la traduzione di vittoria per una popolazione già così martoriata. Per un Paese devastato già sotto l’ipoteca dei ricostruttori, conclamata quanto il fallimento dell’Europa politica, da anni priva di iniziativa diplomatica, che sotto il velo di un’unità coatta rivela profonde faglie interne, approfondite dalle ambizioni baltico-polacche, nonché esposta a un preoccupante scollamento tra società reale e classi di governo.

Eppure una novità c’è, ma sul fronte orientale: la terza ricostituzione euroatlantica dell’esercito ucraino, stavolta con armamenti di qualità superiore. Il logoramento sul campo congiunto alle sanzioni, per cui di mese in mese si è andati preannunciando la capitolazione russa, al contrario si va rivelando la tattica adottata proprio dal Cremlino. Valutando meglio la dislocazione di truppe e mezzi dispiegati già a febbraio, al Pentagono si ammette che la Russia non aveva pianificato una guerra lampo. Essa investe sull’usura di durata, puntando cinicamente sul potenziale arruolabile e sull’uso smodato dell’artiglieria, a un ritmo di distruzione superiore alla capacità di produzione bellica dell’Occidente. Il quale, esaurite le scorte non operative, se mette mano agli arsenali vivi rischia un disarmo di fatto. Così mentre Kiev ricorre ai reclutamenti forzati (donde diserzioni, rese e richieste di asilo tra il personale in addestramento all’estero), gli Usa premono per chiudere la partita e arrivare al negoziato avendo sottratto qualcosa alle conquiste di Mosca: risultato accessorio più spendibile, in termini di immagine, di quello primario di avere divelto i binari euro-russi.

Dunque accelerare, perché i satelliti europei, esaurite le toppe, non sosterrebbero costi e ripercussioni di uno sfibramento a oltranza. Ma anche perché, presidenziali in vista, non cresca il dissenso degli elettori statunitensi sulla politica estera.  Ed elevare la qualità offensiva delle forniture, perché i russi si scoprano per sferrare una reazione dinamica. Tutto in punta di calcolo escalativo, che però rischia di superare la linea rossa oltre la quale nessuno, a oriente o a occidente, potrà dire con pudore di avere vinto.

Giuseppe Casale*

*Pontificia università lateranense

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Fonte: Sir