Amazzonia. La tragedia degli indios. Parla da Roraima, Brasile, l'amministratore diocesano don Lucio Nicoletto

Roraima, Brasile. Don Lucio Nicoletto (amministratore diocesano) analizza la situazione nel Paese che a ottobre tornerà al voto

Amazzonia. La tragedia degli indios. Parla da Roraima, Brasile, l'amministratore diocesano don Lucio Nicoletto

«Bolsonaro ha attuato il più grande smantellamento della politica indigena degli ultimi 35 anni. Ha abbandonato la politica e la demarcazione fondiaria e ha cercato, fin dall’inizio, di aprire i territori indigeni, compresi quelli già approvati, agli interessi del capitale minerario o dell’agrobusiness». Le parole sono quelle di dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho in Brasile, presidente del Cimi (il Consiglio indigenista missonario), organizzazione che quest’anno compie cinquat’anni. La sua testimonianza diretta, senza esitazioni, dcie l’elevata tensione che si respira in tutto il Paese con l’avvicinarsi delle elezioni federali di ottobre, ma soprattutto lo stato in cui versano ampi strati della popolazione, a partire dai 305 diversi popoli indigeni, responsabili di più di 220 lingue e dei propri straordinari sistemi di conoscenza. 33 milioni di brasiliani sono vittima di povertà e fame. Aggiunge il vescovo Paloschi: «Il Brasile sta vivendo un periodo senza precedenti di erosione della vita democratica e un aumento della violenza che riporta il Paese a scene e ambienti tipici della dittatura militare. I diritti fondamentali vengono dimenticati e le politiche pubbliche essenziali come la salute, l’istruzione, la casa e il lavoro vengono assolutamente abbandonate». A confermarlo ci sono anche dati scientifici. Le ricerche dell’Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais (Inpe), agenzia brasiliana per la ricerca spaziale, hanno registrato un aumento del 52,9 per cento dell’area deforestata nei tre anni del Governo Bolsonaro rispetto ai tre anni precedenti. Solo tra agosto 2020 e luglio 2021 si è registrato un aumento del 22 per cento rispetto al periodo precedente; il disboscamento nella foresta pluviale più grande del mondo ha investito un’area di 13.235 kmq. Inoltre si è registrato un più 30 per cento nella presenza di nuovi pesticidi, 967 introdotti nei primi due anni al Governo.

La situazione insomma è drammatica, come spiega don Lucio Nicoletto, prete padovano e dallo scorso maggio amministratore apostolico della Diocesi di Roraima, nell’estremo Nordest del Brasile dove la Diocesi di Padova ha inviato alcuni missionari fidei donum dl 2017. «Il vescovo Mario Antonio da Silva, lasciando Roraima per fare il suo ingresso nella nuova Diocesi di Cuiabà ha scritto una dura lettera di condanna nei confronti di un sistema politico, economico e sociale che sta dilaniando la società brasiliana e in particolare le popolazioni indigene e tra esse gli Yanomami», afferma don Nicoletto, in Italia per la visita ad limina da papa Francesco dei vescovi dell’Amazzonia. Al papa don Lucio ha donato un dipinto del 1989, in cui un pittore locale denunciava lo sfruttamento degli indio. «Da allora la situazione è peggiorata». In Roraima, porta d’ingresso anche per i profughi venezuelani, si stima vivano 40 mila persone all’interno dei garimpos. «Si tratta di villaggi clandestini costruiti sulla riva di un fiume, nel profondo della foresta, con lo scopo di estrarre illegalmente materie prime come niobio, coltan, diamanti, ma anche oro».

I garimpeiros stanno distruggendo amplissime porzioni di territorio perché utilizzano mercurio e altri metalli pesanti: «Il rio Mucajai da almeno quattro anni è una cloaca a cielo aperto, il mercurio ha contaminato acque e pesci, sta distruggendo tutti i villaggi Yanomami che vivono di quell’acqua». Ma non solo: è nel garimpo, spesso costruito in terra indigena, che prende vita lo sfruttamento dei più poveri, bisognosi di lavoro. Tra loro anche molti indigeni. Il governo Bolsonaro di fatto ha occupato il Funai, organizzazione che si batte per i diritti degli indigeni e con due leggi la 490/2007 e la 191/2020 ha riaperto e mira a regolamentare l’attività mineraria nelle terre indigene, con l’obiettivo non dichiarato, di sostituire le aziende minerarie straniere con operatori brasiliani, senza mutare la logica di sfruttamento del territorio e delle persone. «La Chiesa in Roraima è sempre stata un granello di sabbia in questo meccanismo perverso, nato già ai tempi dell’estrazione del caucciù – riprende don Lucio – I monaci benedettini a cui fu affidata l’allora prelatura apostolica nel 1907, già nel 1914 dovettero fare i conti con l’ostilità dei fazendeiros, i grandi proprietari terrieri provenienti dal Sud che avevano messo in atto sistemi di sfruttamento verso le popolazioni locali. L’odio latente nei confronti della Chiesa ha radici lontane nel tempo, anche perché tutti i vescovi che si sono susseguiti hanno sempre mantenuto fede a questa identità di Chiesa che si è sempre messa concretamente dalla parte dei più poveri, sulla base del Vangelo. Oggi non si verificano episodi di violenza, si tratta piuttosto di discredito e di indifferenza, ma siamo convinti del valore delle nostre scelte. Pertanto continuiamo, sempre accanto agli ultimi».

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