Femminicidi, "attivare anche dentro le carceri progetti specifici"

Intervista a Rita Barbera, vice presidente del centro studi Pio La Torre ed ex direttrice del carcere Ucciardone di Palermo. "Si interviene ancora quando è già troppo tardi" 

Femminicidi, "attivare anche dentro le carceri progetti specifici"

Ragazze giovani e giovanissime ma anche donne mature, quasi ogni giorno, muoiono uccise da uomini. L'elenco di queste tragedie è lungo e occorre mettere in campo tante forze. Per fronteggiarlo, secondo Rita Barbera, con 35 anni di servizio dentro diversi istituti di pena, oggi vicepresidente del Centro studi Pio La Torre ma per tanti anni direttrice del carcere Ucciardone di Palermo, bisogna urgentemente attivarsi nei confronti degli uomini in chiave preventiva, senza però trascurare nello stesso tempo i progetti e percorsi specifici di aiuto e di accompagnamento degli autori di questi reati.

Nella sua lunga esperienza di direzione delle carceri, ha conosciuto anche autori di questi reati?
Assolutamente, sì. Dal '96 al 2003 sono stata al carcere Pagliarelli, proprio nei primi anni della sua apertura quando c'erano solo spazi immensi e niente altro. Dopo altri istituti di pena, poi mi sono fermata dal 2011 all'aprile del 2019 al carcere Ucciardone. A questo proposito ricordo una storia che mi ha segnato per sempre facendomi soprattutto riflettere su come organizzare gli interventi sugli autori dei femminicidi. La prima cosa da dire è che solo la pena detentiva in carcere, senza altri progetti  rieducativi mirati sulla persona detenuta, non serve a niente. Tanti anni fa, conobbi dentro un istituto di pena, un giovane appuntato della polizia che era uno dei migliori nel suo servizio. Aveva una moglie e due figli. Un giorno uccise sparandogli il presunto amante della moglie. Gli diedero un numero considerevole di anni di pena che scontò in vari istituti. Durante la lunga detenzione la moglie e i figli andavano a trovarlo regolarmente per avere dei colloqui. Sembrava che in qualche modo fosse avvenuta la ripresa di un rapporto di coppia. Dopo 10 anni, quando gli fu concessa la semilibertà, dopo pochi giorni, uccise la moglie. Purtroppo parliamo di una persona che, nonostante i tanti anni di detenzione, non aveva fatto alcun progresso, forse anche perché non aveva partecipato a percorsi dedicati finalizzati a prendere consapevolezza sul fatto compiuto. E' stato un fallimento che ci ha messo in discussione se pensiamo che si trattava di una persona 'normale' su cui si poteva lavorare  non essendo un delinquente abituale e non provenendo da contesti sociali violenti o problematici. In questo caso non è stato raggiunto alcun obiettivo di tipo rieducativo.

Che cosa occorre fare allora  per arginare il più possibile il fenomeno?
Nell'esercizio delle nostre responsabilità dobbiamo dare, ognuno per la sua parte, il nostro contributo. Non abbiamo più tempo da perdere perché occorre attivare anche dentro le carceri azioni di trattamento con progetti specifici dedicati a chi compie questi reati. Questi  uomini devono essere  inseriti in percorsi multidisciplinari che possano farli riflettere su come allontanare certi forti condizionamenti culturali. Occorre riuscire a scardinare una cultura patriarcale storica che vede il maschio che prevale sulla donna sottomessa, considerata solo un oggetto da possedere. Bisogna lavorare su due aspetti: da una parte su quello culturale e dall'altra su quella della persona che è come se avesse 'una bomba innescata nel cervello' pronta ad esplodere da un momento all'altro. Gli uomini devono  essere aiutati ad abbandonare l'idea che gli atti di ribellione al possesso siano talmente offensivi e frustranti da dover essere contrastati  con azioni estreme e disperate. Purtroppo i progressi e processi  culturali hanno bisogno di tanto tempo e noi non possiamo più permettercelo perché questo tempo significa violenza e  morte. La donna, negli anni è andata avanti in tutti gli ambiti, facendo crescere la consapevolezza piena di sé che certi uomini, rimasti indietro, non hanno voluto accettare.

Ricorda qualche progetto portato avanti?
Sì, quando ero nell'istituto di pena di Castelvetrano (Tp), dove oggi ci sono i sex-offenders per reati di vario tipo, ho portato avanti un progetto di recupero. Si trattava di un percorso dedicato che prevedeva pluricompetenze con interventi specifici di psicologo, psichiatra, assistente sociale ed educatore. Almeno, so che fino a due anni fa, quando sono andata in pensione, di interventi di questo tipo ce n'erano ben pochi. Bisogna sicuramente allora  accrescere questi progetti se si vogliono raggiungere precisi obiettivi che vanno a vantaggio di tutta la società.

In chiave preventiva, invece, che bisogna fare?
Molte tragedie, il più delle volte, sono "cronaca  di una  morte annunciata", per i segnali che c'erano stati  quasi sempre prima della violenza e che forse, se intercettati immediatamente con strumenti adeguati, anche su denuncia della donna o di persone a lei vicine, avrebbero potuto essere  utili ad evitarle la morte. Siamo davanti a episodi di cronaca traversali perché investono tutti i contesti sociali. In chiave assolutamente preventiva occorrerebbe già intervenire subito non appena si manifestano i primi segnali. Già quando una donna si reca al pronto soccorso mostrando segni di percosse sospette bisognerebbe attivarsi. Oltre alla diffida, il questore dovrebbe obbligare la persona a frequentare un centro specializzato per il recupero degli uomini maltrattanti. Solo in questo modo sarebbe auspicabile che questi rifletta per comprendere a poco a poco, la gravità di certi atti compiuti sulla donna. So che in Sicilia ne esiste uno a Caltanissetta. La realizzazione di questi centri sarebbe già un grande passo in avanti per tutto il Paese.

La normativa in materia aiuta?
Anche le recenti leggi in materia di violenza di genere come il codice rosso, non hanno avuto evidentemente l'effetto deterrente; forse, vorrei speralo, è stato efficace per evitare qualche atto di violenza in più ma, purtroppo la drammatica recrudescenza degli ultimi femminicidi mi hanno profondamente sconfortata, facendomi pensare che non si faccia ancora abbastanza. Si interviene ancora quando è già troppo tardi e si erano manifestati episodi che non avrebbero dovuto essere sottovalutati. Bisogna adoperarsi subito senza aspettare che la donna arrivi alla denuncia che, per tanti motivi, può essere anche un passo per lei molto difficile da fare. E' lo Stato, quindi, che in questo caso deve intervenire sostituendosi alla donna, per proteggerla non certo per condannare subito, ma, certamente, in alcuni casi, per evitare il peggio. Sicuramente per un cambio di rotta c'è  tanto lavoro ancora da fare a tutti i livelli.

Serena Termini

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)