Frutticoltura preziosa e fragile. Il settore ha perso milioni di piante e deve confrontarsi con un mercato sempre più difficile

Una situazione pericolosa non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello ambientale e alimentare.

Frutticoltura preziosa e fragile. Il settore ha perso milioni di piante e deve confrontarsi con un mercato sempre più difficile

La frutticoltura italiana sta vivendo un periodo difficile. A dirlo è in questi giorni Coldiretti in occasione di una manifestazione a Cosenza proprio per attirare l’attenzione sui problemi della produzione ortofrutticola e sulla necessità di difendere la biodiversità che nei secoli ha fatto ricco l’agroalimentare italiano.
A conti fatti, spiegano i coltivatori, in Italia negli ultimi 15 anni sono andati perduti oltre 100 milioni di piante di frutta fresca. Scomparse varietà di tutte le principali produzioni, dalle mele alle pere, dalle pesche alle albicocche, dall’uva da tavola alle ciliegie, dalle arance alle clementine mentre in controtendenza tengono solo il cedro e il bergamotto. Complessivamente, la superficie italiana coltivata a frutta – sottolinea la Coldiretti – si è ridotta a 560mila ettari con la perdita di oltre centomila ettari rispetto a 15 anni fa con “conseguenze – dicono i coltivatori -, sul primato produttivo nazionale in Europa che si estende dalle mele alle pere fresche, dalle ciliegie alle uve da tavola, dai kiwi alle castagne fino al cedro e al bergamotto la cui produzione mondiale si concentra per il 90% in Calabria”. La situazione peggiore si registra sulle arance, con 16,4 milioni di alberi abbattuti, sulle pesche, dove sono scomparsi quasi 20 milioni di piante, e sull’uva, dove mancano all’appello 30,4 milioni di viti, secondo la stima Coldiretti. Pesante anche la situazione per nettarine e pere dove ne sono spariti rispettivamente 14,9 milioni e 13,8 milioni.
E non basta, perché, sempre i coltivatori dicono che con il caro prezzi e il cambiamento climatico che ha decimato i raccolti, gli italiani avrebbero già “tagliato gli acquisti di frutta che crollano nel 2022 dell’8% in quantità rispetto allo scorso anno, ai minimi da inizio secolo”.
Una situazione pericolosa non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello ambientale e alimentare. La forte diminuzione del numero di alberi, è già stato fatto notare, mette a rischio idrogeologico estese aree dello Stivale. Mentre la diminuzione nella dieta alimentare della quantità di frutta, mette a rischio la salute media degli italiani.
Ma quali possono essere le prospettive del settore? Difficile dirlo adesso, visto che anche la frutticoltura è alle prese con i rincari energetici e con l’aumento generalizzato dei costi di produzione e di trasporto. Per capire, basta pensare che i costi correnti per la produzione della frutta arrivano ad aumentare del 42% con, commentano i produttori, “un impatto traumatico sulle aziende agricole”. Ma, viene fatto notare, “a colpire il settore è anche la concorrenza sleale delle produzioni straniere con la frutta Made in Italy stretta nella morsa del protezionismo da un lato e del dumping economico e sociale dall’altro”. Un esempio per tutti fa comprendere la situazione. Le pere cinesi Nashi, dicono i coltivatori, arrivano regolarmente nel nostro Paese, ma quelle italiane non possono andare in Cina perché non è stata ancora concessa l’autorizzazione fitosanitaria.
Oltre che ai costi di produzione e agli effetti del clima, quindi, il destino della frutticoltura italiana appare legato anche all’apparato di regole che guidano il mercato europeo e i rapporti tra questo e il resto del mondo. “E’ necessario – ha recentemente spiegato Ettore Prandini, presidente di Coldiretti -, che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l’ambiente, il lavoro e la salute, secondo il principio di reciprocità”. E’ forse il caso di partire da qui per dare un futuro alla frutticoltura italiana le cui vendite all’estero valgono comunque ancora 3,8 miliardi di euro.

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Fonte: Sir