"Ho imparato a fare il pane". Una ragazza in Kenya in servizio civile, ha imparato a fare il pane un mese fa. Poi il lockdown

In tanti, in questi giorni, si sono cimentati con il pane fatto in casa. Molti lo hanno fatto per la prima volta.

"Ho imparato a fare il pane". Una ragazza in Kenya in servizio civile, ha imparato a fare il pane un mese fa. Poi il lockdown

Farina, acqua, lievito e sale. Per fare il pane servono pochi ingredienti. Ma il vero segreto per un buon pane è la pazienza. Perché non basta ottenere un impasto bello ed elastico. Bisogna anche lasciargli il tempo di crescere e lievitare. E quanto più l’impasto lievita, tanto più dopo il pane sarà buono, digeribile e si conserverà nel tempo.

Metafora di queste settimane di “quarantena”, il pane è diventato uno dei cibi preferiti degli italiani, pronti a fare file estenuanti davanti a negozi e supermercati, a caccia dell’ultimo cubetto di lievito di birra disponibile nel banco frigo o – nel caso di quello disidratato – sullo scaffale, e a contendersi un preziosissimo pacco di farina. Arrivati a casa, via subito in cucina, ad impastare avvolti in una nuvola di farina. E poi arriva il tempo dell’attesa irrequieta. Nulla a confronto con il tempo impiegato per fare la spesa o quello che è servito a mettere insieme gli ingredienti. Il profumo del pane caldo che riempie la casa è lì che bussa insistente nella testa (e nello stomaco), al punto che alla fine anche un’ora sembra essere un’eternità.

In tanti, in questi giorni, si sono cimentati con il pane fatto in casa. Molti lo hanno fatto per la prima volta. Come è accaduto a Dana Yashchuk, che ha raccontato la sua esperienza sulla pagina Facebook della Caritas ambrosiana.

Dana ha imparato a fare il pane un mese fa. Era venerdì 13 marzo.

“Di solito alla Cafasso iniziano a preparare l’impasto prima ancora che suoni la sveglia a casa Sce – racconta –. Quel venerdì mattina mi sono sentita un’eroina: nonostante le ore piccole, ho sconfitto l’impulso di tornare in posizione orizzontale e ho respinto un’invasione di scuse che spesso capovolgono i miei piani”.

La Cafasso è la St. Joseph Cafasso Consolation House, una casa di accoglienza per ex detenuti del carcere minorile di Kamiti, a Kahawa. Questa struttura, unica nel suo genere e gestita a Nairobi (Kenya) dalle suore missionarie della Consolata, ha avviato da tempo una collaborazione con la Caritas ambrosiana, che anno dopo anno invia dei giovani in Servizio civile all’estero (Sce, per l’appunto). Dana è una di questi giovani.

Il pane viene preparato due volte a settimana e oltre ad essere consumato in Cafasso può essere venduto – spiega Dana –. La produzione è gestita dalla house mother con l’aiuto di uno dei ragazzi. Quel giorno il procedimento sarebbe stato influenzato dall’introduzione di una nuova variabile: il mio coinvolgimento. Devo dire che non c’è stata una fase da cui sono stata esclusa, mi hanno lasciata mettere lo zampino in ogni mansione. Probabilmente non immaginavano la mia totale inesperienza in ambito culinario”.

“Addentrarsi nei particolari di un processo – prosegue Dana – rende evidente una grande quantità di dettagli da tenere in considerazione per fare bene ciò che al primo sguardo sembra semplice. Non sto dicendo che fare il pane sia particolarmente difficile, ma le modalità e i mezzi keniani rendono il processo lungo… e io sono riuscita ad estenderlo ulteriormente per dare spazio alle mie manie di perfezionismo”.

Non sono certo mancate le difficoltà. “Il momento più faticoso – ricorda Dana – è stato all’inizio: davvero difficile impastare 8 kg di farina! Il resto tutto in discesa e la motivazione tutta in salita. La soddisfazione che ne deriva è travolgente! Ma questo lo avevo già previsto ed è stato il motivo per cui mi sono alzata dal letto. Finalmente potevo cancellare un altro punto dalla mia ‘to do list’: ho imparato a fare il pane”.

Quel giorno per Dana è stato diverso dai soliti. E non solo per il pane. “Mentre l’impasto stava lievitando ci siamo trovati tutti nella saletta comune per il tea break. E qui ho appreso la notizia del giorno: primo caso confermato di Covid-19 in Kenya”.

“Quel venerdì mattina, ironicamente un 13, tutto è diventato incerto – prosegue Dana –. Era evidente che le cose sarebbero cambiate, ma non pensavo in modo così drastico”. Giusto il tempo di fare la valigia e salire sull’aereo: all’indomani tutti gli operatori volontari della Caritas sono stati fatti rientrare in Italia. “Rabbia, incredulità, disperazione, lacrime e risate… e poi la rassegnazione” di fronte ad una realtà da cui non si può scappare e di fronte alla quale ci si sente impotenti.

Metafora di queste settimane di “quarantena”, il pane. Lo ha imparato anche Dana, che però non si dà per vinta. Anzi. Per quel profumo di pane caldo appena sfornato vale sicuramente la pena di attendere. “La mia decisione di tornare a Nairobi per un anno di Servizio civile risale al 2016 – racconta –. Ho aspettato 4 anni, aspetterò ancora. Non abbiamo finito di sistemare la casetta e non ho ancora avviato il corso di chitarra in Cafasso… E devo rifare il pane!”.

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Fonte: Sir