Salmo 116. Perché soffriamo. Chi di noi può dirsi preservato da questo abisso che è poi la contraddizione per eccellenza

Totalmente nelle mani del Signore, il credente del salmo, beneficia del riposo in Lui, quello stato di Grazia che sgorga appunto dalla preghiera nella sua purezza.

Salmo 116. Perché soffriamo. Chi di noi può dirsi preservato da questo abisso che è poi la contraddizione per eccellenza

“Amo il Signore, perché ascolta il grido della mia preghiera” (v.1). L’incipit del Salmo 116 è così denso di significato, nella sua disarmante icasticità, che si potrebbe commentare solo questo verso. Anzi, ancora più ampio potrebbe essere l’approfondimento se seguissimo letteralmente il testo ebraico che assolutizza il verbo iniziale, ovvero: “io amo, perché il Signore mi ascolta”. Non è una sottigliezza, perché questa seconda versione mette in evidenza che nella vita del credente la relazione verticale d’amore filiale nei confronti di Dio Padre, sentirsi ascoltati e quindi profondamente amati da Lui, è il fondamento, anzi il presupposto di ogni altra capacità di amare; quindi ricambiando verso il Creatore; amando se stessi, cioè nutrendo una sana consapevolezza della propria dignità di figli, voluti, perdonati e redenti e infine, ma in realtà contemporaneamente, amando in modo sincero e gratuito i fratelli, soprattutto quelli che per vocazione e stato di vita ci sono più prossimi: i genitori, poi i coniugi, i figli, oppure i confratelli nella vita religiosa e non certo in ultimo i poveri che sempre la Bibbia – e poi la Chiesa – ci indicano come i destinatari privilegiati di ogni oblatività, perché beati, prescelti da Dio e poi personificazione dello stesso Gesù Cristo. Ė chiara, dunque, la posta in gioco che l’intero Salmo presuppone e ciò attraverso una lode profonda, che non tralascia di evocare i momenti di sconforto ed ha un andamento emotivo, per immagini che si accavallano, non secondo un ordine logico, quanto piuttosto psicologico e quindi dettato più da slanci del cuore che da regole compositive. “Verso di me ha teso l’orecchio nel giorno in cui lo invocavo. Mi stringevano funi di morte, ero preso nei lacci degli inferi, ero preso da tristezza e angoscia. Allora ho invocato il nome del Signore: Ti prego, liberami, Signore. Pietoso e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso. Il Signore protegge i piccoli: ero misero ed egli mi ha salvato. Ritorna, anima mia, al tuo riposo, perché il Signore ti ha beneficato. Sì, hai liberato la mia vita dalla morte, i miei occhi dalle lacrime, i miei piedi dalla caduta. Io camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi. Ho creduto anche quando dicevo: Sono troppo infelice. Ho detto con sgomento: Ogni uomo è bugiardo. Che cosa renderò al Signore per tutti i benefici che mi ha fatto? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore” (vv. 2-13). L’intensa bellezza di questo soliloquio non poteva essere interrotta. Il salmista riconosce di aver attraversato un grande pericolo, o una malattia, o piuttosto una notte dell’anima, una morte interiore, proprio come quella da cui Gesù ha strappato Lazzaro, nell’episodio giovanneo che ha caratterizzato l’Eucarestia domenicale appena celebrata. Le funi di morte, i lacci degli inferi, la tristezza e l’angoscia che possono aggredirci, in qualunque fase della vita, dall’adolescenza fino all’ultimo respiro, dopo una vita sazia di giorni. Chi di noi può dirsi preservato da questo abisso che è poi la contraddizione per eccellenza, il mistero principe dell’esistere: perché soffriamo? Perché tutti dobbiamo morire, noi figli di Dio che abbiamo nel dna e poi confermato nel Battesimo, il desiderio e l’aspirazione a vivere per sempre? L’invocazione affinché Dio ci liberi dalla nostra caducità mortale è il fondamento della fede. Solo chi arriva all’onesta umiltà di ammettersi malato, bisogno di essere liberato dal male – come recitiamo ogni volta nel Padre Nostro – solo compiuto questo atto di affidamento noi permettiamo a Dio di salvarci, a lui che in Gesù, più volte, ha detto di essere venuto per i malati e non per chi crede di essere sano; per chi ammette la sua cecità ed infermità e non per chi crede di vedere o di saper camminare solo in virtù della sua forza di volontà.  Totalmente nelle mani del Signore, il credente del salmo, beneficia del riposo in Lui, quello stato di Grazia che sgorga appunto dalla preghiera nella sua purezza: una preghiera che travalica la richiesta di aiuto e diviene lode in quanto capace di riconoscere la misericordia di Dio anche attraverso e durante le prove: questo è il beneficio di una perseverante fiducia nella Sua fedeltà! Allora, passato nel mezzo di tale crogiuolo, l’uomo affidato a Dio può alzare il calice della salvezza e invocare il nome del Signore. E come non riconoscere in queste parole un’anticipazione di quanto offrirà Gesù prima nell’ultima cena e poi sulla Croce!? Ė lo stesso calice che attraversa tutta la Scrittura, quello a cui Cristo associa i discepoli di ogni tempo, chiamati ad essere martiri, ovvero testimoni, se non tutti con l’effusione cruenta del sangue, certamente tutti con il dono della propria vita per la gloria di Dio, già qui, oggi e per sempre.

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Fonte: Sir