CAA, Comunicazione aumentativa alternativa, cos'è e come diventa poesia. Intervista a chi la usa e a chi la insegna

Tecnicamente, la Caa è la Comunicazione aumentativa alternativa. Nella vita vera, è la possibilità di parlare, per chi non può usare la voce. E' la possibilità di fare poesia anche senza usare le parole. Come fa Angelo Signorello, tetraplegico dalla nascita. E come insegna Aurelia Rivarola, neuropsichiatra “pioniera”

CAA, Comunicazione aumentativa alternativa, cos'è e come diventa poesia. Intervista a chi la usa e a chi la insegna

La poesia è fatta di parole, ma non ha bisogno di parole. E si può dire tanto, anche se non si può usare la voce. E' quanto dimostrano ogni giorno le tante persone che, per una disabilità congenita o acquisita, non possono usare la voce, ma parlano come se l'avessero. Angelo Signorello ha 51 anni ed è tetraplegico dalla nascita: non può muoversi e non può parlare, ma grazie alla Comunicazioe aumentativa alternativa, fatta di segni e di simboli, e grazie al puntatore oculare con cui li indica, comunica i propri bisogni, i proprio pensieri, le proprie emozioni. E sa farne poesia. è stato tra i primi in Italia a beneficiare di questa area di pratica clinica ed è diventato così esperto che oggi può essere considerato un esempio, un modello nell'utilizzo di questo strumento. Angelo oggi è scrittore e autore di diverse poesie in dialetto siciliano, per le quali ha vinto diversi premi. Recentemente è stato ospite e testimone dell'incontro “Storie per vivere. La narrazione come cura ed espressione di sé”, promosso a Milano dalla Fondazione Benedetta D’Intino, da trent’anni anni impegnata a promuovere il diritto alla comunicazione e al sostegno psicologico per bambini e ragazzi. Insieme a lui c'era la sua guida e maestra, la neuropsichiatra infantile Aurelia Rivarola, responsabile clinico scientifico del Centro Benedetta D’Intino e “pioniera” della Caa: fu lei a importarla in Italia dal Canada negli anni ’80 ed è soprattutto grazie a lei che Angelo ha imparato a comunicare con gli altri, anche senza parlare. capacità di comunicare con gli altri. Redattore Sociale li ha intervistati.

Dottoressa Rivarola, come e quando ha scoperto la CAA? Cosa l’ha “convinta”, di questa area clinica?
Ho scoperto la CAA perché l’ho cercata quando ancora non costituiva un campo clinico definito e non aveva un nome. Lavoravo allora in un servizio di Neuropsichiatria Infantile e tra i nostri compiti c’era quello di collaborare con le scuole per rendere inclusiva la presenza dei bambini disabili nella scuola di tutti. Erano i primi anni ‘80 e anche per i docenti queste esperienze erano all’inizio. Ricordo un’insegnante di scuola primaria, a cui devo la decisione di approfondire le mie conoscenze nel campo della disabilità comunicativa. Le era stata affidata una bambina di 6 anni con un grave quadro di paralisi cerebrale infantile, impossibilitata a parlare. Nei rari momenti in cui riusciva a stare in classe, osservava i compagni con curiosità, ma quando succedeva qualcosa che non comprendeva si arrabbiava e spesso scoppiava a piangere. L’insegnante faceva domande per cercare di capire la causa del suo pianto e la bambina cercava a sua volta di rispondere. Questi tentativi provocavano intense distonie e la bambina urtava con il suo corpo contro la carrozzina fino a farsi male: non era possibile neppure capire se rispondesse “si” o “no” a domande specifiche.

Ho allora suggerito una strategia che avevo visto usare in un centro in Inghilterra: presentare due cartoncini, uno rosso e uno verde, e suggerire alla bambina di guardare il primo se voleva rispondere “si” e il secondo per “no”. L’insegnante ha usato subito questa strategia e dopo poche ore mi ha telefonato entusiasta. “Perché non ci ho pensato prima? Ma questa è la scoperta dell’acqua calda!”. La sua allieva aveva certamente molte abilità, provava tante emozioni e aveva solo il pianto per esprimerle, per dimostrare che voleva dire qualcosa, che voleva partecipare alla vita della classe.

Questa bambina e questa insegnante mi hanno stimolata ad approfondire ciò che veniva fatto all’estero in questi casi. Mi sono recata in Canada e poi in Inghilterra e Svezia e ho conosciuto professionisti che si occupavano specificatamente di supportare con strategie, tecniche e tecnologie le persone non parlanti. Mi hanno coinvolta nella fondazione, nel 1983, di un’area clinica e di ricerca specifica che è stata chiamata area della Comunicazione Alternativa e Aumentativa (CAA) e di una società: ISAAC (International Society for Augmentative and Alternative Communication), di cui esiste in Italia un chapter: ISAAC Italy.

Quali categorie di persone possono trarre giovamento dalla CAA?
La CAA è indicata per tutte le persone che presentano bisogni comunicativi complessi: sono quindi diverse le condizioni cliniche che possono richiedere un intervento di CAA. Non esiste un utente tipo, ma i diversi servizi che accolgono utenti con difficoltà comunicative dovrebbero prevedere professionisti preparati, in grado di affrontare in modo competente i problemi comunicativi dei loro pazienti.

Quanto è complicato insegnare e apprendere la CAA?
L’intervento di CAA impegna un enorme quantità di tempo ed energia da parte della persona con complessi bisogni comunicativi, dei suoi familiari, di insegnanti, amici e dei professionisti che conducono il progetto di CAA. Questo non può avvenire senza un intervento esperto e continuo nel tempo rivolto alla persona e senza l’individuazione, la prova, l’insegnamento all’uso e spesso la personalizzazione di strumenti di comunicazione semplici o tecnologici. L’obbiettivo finale dell’intervento non è però quello di fornire strumenti, ma quello di migliorare la partecipazione delle persone con disabilità comunicativa. L’intervento deve quindi contemporaneamente coinvolgere i partner che vivono, assistono e supportano la persona. I partner devono imparare a modificare quei comportamenti tipici nelle interazioni con chi non parla, devono mettere in atto strategie proprie della CAA per facilitare l’interazione e individuare le occasioni di comunicazione e partecipazione che fanno vivere alla persona disabile l’utilità degli strumenti e la forza della comunicazione.

La più grande emozione che ha provato nella sua esperienza con la CAA?
Tutte le volte che ho saputo che persone prima considerate incapaci di pensare sono riuscite a dimostrare di avere una mente che pensa, delle idee e dei desideri che non erano quelli degli altri, ma proprio i loro. O quando ho sentito dei genitori dire: “Mia figlia ora non è più una scatola vuota, ha una sua precisa personalità”. Oppure: “Se prima parlavo di mio figlio ora parlo con mio figlio”.

Angelo Signorello, in che modo comunicava prima di scoprire la CAA?

Ho comunicato con il “Metodo Domani” dai 2 ai 7 anni: si trattava di singole parole riportate in cartoncini con lettere grandi, che i miei genitori mi ponevano dinnanzi e io indicavo con gli occhi e col capo in base a ciò che volevo dire. Era un sistema molto limitato e di conseguenza io non potevo esprimere tutte le mie esigenze. Ma erano gli anni ’70, il “Doman” era l’unico ausilio disponibile per i bambini disabili in età precoce. Questa pratica era inserita in un vasto programma di fisioterapia svolto a casa dai miei genitori, aiutati da una terza persona per circa sette ore al giorno.

Quali erano le cose più difficili da esprimere e far capire?
Tutte quelle non contemplate nel “Metodo Doman”, appunto: non potevo esternare le mie emozioni, le mie idee, i miei bisogni. Utilizzavo lo sguardo “per parlare”, indicavo cose per farmi capire, ma invano o comunque in modo molto limitato. Ricordo che una volta tentai di chiedere a mio padre un regalo: desideravo una pista con macchine telecomandate, ma lui non mi capì. Nonostante tutte le domande che mi fece, la pista restò un sogno. Ecco perché spesso affermo che chi non può parlare, conta zero. Avevo esaurito le mie risorse. Il mio silenzio è durato dieci anni, così come il mio approccio da bambino col mondo esterno. Inventavo i giochi che desideravo e nessuno poteva entrare nella “stanza della mia psiche”.

Come e quando ha incontrato la CAA? Quanto è stato difficile apprenderla?
Il mio approccio con la CAA ebbe inizio nei primi anni ’80 a Catania, grazie alla dottoressa Pina Gennaro, che andò in Canada per fare un corso di specializzazione e imparare il “metodo dei simboli Bliss”. Ho iniziato in una classe speciale con un altro piccolo gruppo di bambini con gravi disabilità motorie e verbali. In Italia siamo stati i primi a poterne usufruire. Grazie al “Metodo Bliss”, sono nato per la seconda volta, perché non solo parlavo di me e delle persone a me care, ma mi divertiva comporre versi e inventare storie. Dopo aver memorizzato il significato dei simboli, ho avuto la possibilità di imparare per bene l’alfabeto e da lì in poi ho iniziato a buttar fuori tutto quello che avevo immagazzinato per tanti anni.

La dottoressa Carmela Marchese successivamente mi supportò nel mio primo approccio con la tecnologia più avanzata. Erano gli ultimi anni ’80 e anch’io iniziai ad utilizzare il mio computer con ausili adattati alle mie esigenze, che nel corso del tempo venivano migliorati seguendo l’evoluzione tecnologica fino all’utilizzo, oggi, del puntatore oculare. Non avendo avuto la possibilità di frequentare la scuola ed essendo fondamentalmente un autodidatta, questo percorso è stato faticoso, ma ho affrontato tutto con grande entusiasmo, perché mi sentivo finalmente libero di essere me stesso e di condividere la mia crescita con tanti amici.

Cosa rappresenta oggi per lei la CAA, cosa riesce a comunicare e cosa invece ancora non riesce a comunicare?
Oggi per me CAA significa possedere piena libertà d’espressione. Se oggi posso scrivere le mie poesie, magari ascoltare chi le interpreta, spiegare quello che voglio dire con “quelle parole”, è grazie alla CAA, che mi ha finalmente restituito la mia vera identità. Scrivo anche articoli, interviste e molto spesso vengono pubblicati in vari periodici. Se per qualsiasi motivo non potessi più usare l’Etran o il puntatore oculare, ritornerei ad essere nuovamente una persona disabile. Riesco a comunicare quasi tutto, anche perché mi considero una persona molto “disinvolta”, cioè non mi pongo dei limiti, sono curioso, voglio conoscere. Ma anche io a volte, come del resto un po’ tutti, ho difficoltà ad esempio ad esternare le mie fragilità, il desiderio di volere e di essere.

Nella sua poesia “Morso 19”, esprime la grande sofferenza di non riuscire a comunicare. È una sofferenza che è riuscito a superare? O le capita ancora di non sentirsi compreso?
No, non si può superare quella sofferenza, anche perché noto delle enormi differenze rispetto al passato. Sembra paradossale, ma più la tecnologia fa progressi e più avverto difficoltà, perché la comunicazione segue dei tempi che non si addicono né alle mie esigenze, né alla mia personalità. È tutto inutilmente veloce. Inoltre, mai come oggi, le persone sono travolte da tanti messaggi e non hanno la pazienza di fermarsi ed ascoltare. Ho l’impressione che pensino: perché mai dovrei perder tempo con una persona che non ha voce? Raramente trovo chi è disposto a tenere un dialogo con chi “non parla la stessa lingua”.

Ad esempio, l’Etran, che utilizzo per comunicare in modo estemporaneo e che è per me uno strumento di vitale importanza, generalmente viene sottovalutato, c’è chi addirittura prova timore ad approcciarsi con questa tabella; spesso mi sento dire: “Ho paura di sbagliare”, “Temo di farti stancare”, “Non ci riuscirò mai”, invece ogni persona che riesce ad utilizzarla è per me un nuovo interlocutore con cui posso confrontarmi e io cerco in tutti i modi di aiutare e incoraggiare l’altro a far capire come comunico. Spesso sono costretto a fare delle pause, per capire se io e l’altra persona ci stiamo intendendo. Quindi, sebbene nel corso di questi anni io abbia imparato ad usufruire dei mezzi e degli ausili disponibili, non sempre trovo riscontro negli altri . Invece per quanto mi riguarda, questa comunicazione che avviene prima di tutto attraverso gli occhi e poi con le parole, è per me “fiato per vivere”. Posso permettermi di partecipare alla vita solo ed esclusivamente usando i miei occhi. Quando vengo invitato ai vari incontri dove porto la mia testimonianza, posso farlo solo con l’aiuto degli altri, di chi comunica con me.

Cosa consiglia a chi, in questo momento, si trova in una condizione di impossibilità di comunicare (per esempio in seguito a un ictus o trauma)? E a chi si prende cura di loro, cosa suggerisce, per aiutare queste persone a “uscire dal silenzio”?
Non sono di certo un “guru” ma un uomo con i miei limiti e le mie debolezze. Secondo me in questi casi bisogna innanzitutto capire chi sono le persone che si occupano del paziente. Tocca alla famiglia rintracciare figure idonee nel settore riabilitativo. Per fortuna oggi ci sono molte strade e molti professionisti preparati in questo ambito (terapisti, psicologi, logopedisti, ecc.). Al paziente dico di provare ad avere una “forza da leoni”: non sono un credente, ma sono convinto che la vita è bella, che bisogna amare e credere fortemente nella speranza di poter ritornare se stessi.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)