Coronavirus, le testimonianze dei detenuti: “Ora il carcere è come un deserto”

Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, ha raccolto via mail le impressioni dei detenuti del carcere di Padova dove per evitare i contagi sono state sospese le attività dei volontari: “Cresce la tristezza di sentirsi già in parte abbandonati”

Coronavirus, le testimonianze dei detenuti: “Ora il carcere è come un deserto”

L’emergenza Coronavirus non ha risparmiato il mondo del carcere dove, per evitare i contagi, sono state sospese le attività dei volontari che quotidianamente entrano nei luoghi di detenzione per svolgere attività con i detenuti. Ristretti Orizzonti non è da meno: la redazione del carcere di Padova non può più riunirsi ma la direttrice Ornella Favero, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, non rinuncia all’impegno di informare sulle condizioni dei detenuti. E lo ha fatto raccogliendo, rigorosamente via mail, le testimonianze di chi vive questa emergenza da dietro le sbarre. “Queste testimonianze servono anche a capire cosa vuol dire vivere rinchiusi con l’ansia per le proprie famiglie e le possibilità così limitate che ci sono oggi per comunicare con loro – fa sapere Favero -: diventa allora prioritario un piano immediato di ampliamento delle telefonate e diffusione dell’uso di Skype, senza limitazioni per l’Alta Sicurezza, perché tutti hanno il diritto di essere costantemente informati sullo stato di salute dei propri cari. E senza tentazioni di sostituire i colloqui visivi con i colloqui via Skype: nessuna tecnologia vale quanto un abbraccio”.

Tra le testimonianze inviate dai detenuti c’è quella di Tommaso Romeo, che racconta come sia cambiata la vita in carcere senza attività: “Oggi si sente la grande differenza tra la detenzione attiva e quella passiva. È come essere ripiombati negli anni lontani dove nelle sezioni si parlava solo di processi o di discorsi negativi”. E continua: “Più incontri e confronti con la società civile esterna non fanno altro che farci crescere in positivo. Una detenzione attiva e aperta agli incontri con le persone dell’esterno è un grande investimento per far diminuire la recidiva”.

Andrea Donaglio fa sapere che il timore ora è la chiusura delle camere detentive: “L’ho già vissuta una condizione del genere. Dalle venti alle ventidue ore in tre persone chiusi in uno spazio destinato ad una singola persona detenuta. Questo per quasi quattro anni ininterrottamente. Avrei una comprensibile difficoltà a riadattarmi a una condizione simile”. E aggiunge: “Ma non è solo una questione di orari. I tempi al di fuori del proprio reparto vengono vissuti assieme ai volontari. Per me rappresentano il segnale che una parte della società dedica del suo tempo anche alla parte più reietta di essa”. Amin riferisce che “se la cosa degenera abbiamo anche paura che non facciano più entrare le nostre famiglie e quindi questo vorrebbe dire anche il rischio di perdere gli affetti”.

La difficoltà dei detenuti è quella anche di capire perché i volontari siano stati bloccati, mentre altre figure che gravitano intorno al carcere no. Ne parla Giuliano Napoli: “Gli agenti giustamente si recano all’esterno del penitenziario quando finiscono il turno di lavoro e poi fanno rientro, e infermiere, medici, educatrici, psicologi, psichiatri, che hanno un contatto diretto giornaliero con i ristretti, potrebbero essere portatori del virus stesso all’interno, considerando il suo altissimo tasso di contagiosità. Ci piacerebbe soltanto che ci spiegassero il senso di escludere una determinata categoria, ‘i volontari’, dall’ingresso in carcere, mentre gli ipotetici portatori del virus possono essere molti altri, tutto qui: abbiamo bisogno anche noi di capire di più”.

Elton Xhoxhi spiega: “Adesso il carcere è come un deserto. Io mi sento un po’ come un orfano. Qui a Padova ci sono delle attività e le giornate sono diverse, ma in questo momento non sappiamo neppure per quanto dobbiamo stare in questo stato di stress, è davvero una cosa che porta una grande tristezza”.

Gabriele Trevisan gli fa eco: “La tristezza sale in maniera esponenziale, al pensiero di passare le ore, le giornate senza dare più un senso al tempo che passa.  La speranza è che tutto svanisca come la neve al sole, ma intanto cresce la tristezza di sentirsi già in parte abbandonati, in un luogo dove le emozioni hanno pochissimo spazio”.

Giovanni Zito conclude: “Già la reclusione di per sé ci tiene isolati abbastanza dal punto di vista umano, se mettiamo anche un freno alla poca se non scarsissima attività che caratterizza nel nostro Paese la vita detentiva rischiamo di cadere in un vortice di paure incontrollate. Noi esistiamo anche in questo piccolo mondo, non vorremmo essere tagliati ancor di più fuori dal contesto sociale e da ogni rapporto con il resto della società”. Infine, Radouan El Madkouri: “Già di per sé questa espressione “carcere chiuso” ci fa paura perché qui siamo già chiusi, in più essere isolati dal mondo esterno fa entrare dentro di noi quel vuoto e quell’angoscia, che con le parole è duro descrivere”.

Giorgia Gay

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)