I due Natali di Manzoni. Il grande scrittore ci insegna ancora oggi a vedere nella Natività la vicinanza con la sofferenza e il dolore

Nonostante la conoscenza e l’esperienza dell’abisso, il Natale rappresenta un profondo messaggio che va oltre le forme, dritto all’essenza del Bene

I due Natali di Manzoni. Il grande scrittore ci insegna ancora oggi a vedere nella Natività la vicinanza con la sofferenza e il dolore

Proprio quarant’anni fa il premio Strega venne assegnato a “Il Natale del 1833” di Mario Pomilio, scrittore dalle profonde radici religiose che si era già distinto per quel “Il quinto Evangelio” che nel 1975 aveva sondato la ricerca senza fine del senso profondo dei Vangeli al di là delle codificazioni dottrinali.
Il libro premiato con il più ambito riconoscimento letterario nel nostro Paese narra l’altra faccia della festa più amata, quella del dolore e delle domande sul senso della vita: Manzoni perde, proprio il giorno del Natale del 1833, l’amata moglie Enrichetta Blondel, che lo aveva gradualmente portato verso una fede profonda, rispetto alle radici illuministiche e sensiste del prima della conversione. Quel Natale è narrato attraverso una immaginaria lettera della madre di Manzoni, Giulia Beccaria, ad una sua corrispondente, nella quale l’anziana signora affronta le chiacchiere che si erano subito propagate nei salotti della Milano bene -e non solo- sulla insensibilità del figlio di fronte ad un lutto come quello. La gente è abituata all’esteriorità, a ciò che appare, dice in pratica Giulia, e non si rende conto di quanto un uomo come Alessandro sia dilaniato dai perché, dal dolore, chiudendosi in una apparente tranquillità che nasconde la pena abissale e la crisi.
Questa è un Natività che Manzoni, in seguito ad altri lutti, tenterà di raccontare nei versi di “Il Natale del 1833”, rimasti ad uno stato frammentario, ma resi celebri -almeno tra gli addetti ai lavori- per quel fulminante inizio, “Sì che Tu sei terribile!”. In questi giorni di lutti e guerre, il mistero profondo della divinità che si fa carne ritorna drammaticamente attuale, e non è un caso che le parole finali del frammento riscritto nel marzo del 1835 finiscano con la visione della Madre che segue sul Calvario il Figlio per vederlo morire.
Amore e morte, nascita e fine si intrecciano in un accenno poetico nato all’interno rovente di questa contraddizione tra una nascita che porta gioia a tutto il mondo e l’addio alla donna che aveva accompagnato lo scrittore nella strada della fede.
Ma l’autore dei Promessi sposi aveva già dedicato una poesia al Natale, venti anni prima, il terzo dei soli cinque Inni Sacri realizzati compiutamente dei dodici progettati, nel quale, in una sorta di profetica coerenza, il basso, l’infimo, il male si confrontano con l’avvento di “un Pargolo” che porge la sua mano ad un uomo che era rotolato in basso, come un masso, scrive Manzoni, precipitato nel fondo di una valle. Anche qui Maria è presente nella sua umiltà e nella sua consapevolezza, componendo “In poveri panni il Figliol”, e anche qui è possibile scorgere la presenza dell’ombra dell’umano, del dolore e del pianto, con quel “Dormi, o Fanciul; non piangere” che sembra rivelare l’altro Manzoni, quello che si interrogava sulla presenza del male, dell’orrore, soprattutto nella Storia della colonna infame, dove innocenti vengono imprigionali, torturati, messi a morte.
Le inquiete, solitarie riflessioni su questa terribile presenza non impediscono allo scrittore di tornare alle luci e alla gioia di una festa a memoria dell’evento che ha cambiato il mondo. La prova provata che, nonostante la conoscenza e l’esperienza dell’abisso, il Natale rappresenta un profondo messaggio che va oltre le forme, dritto all’essenza del Bene, visto nel Natale del 1833 come antico Luogo cui tendere come patria originaria: “Morrò s’io non ritorno/ Culla beata, a te”.

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Fonte: Sir