I nuovi anziani, tra desiderio di imparare e libertà di scegliere

I nuovi anziani, che tali non si percepiscono, vogliono reinventare questa stagione della loro esistenza: è quanto emerge dalla ricerca “Non ho l’età” promossa da Spi Cgil Modena: “L’età anagrafica non corrisponde a quella sociale. E se subentra la non autosufficienza, chiedono di poter scegliere in base alle esigenze”. Il cohousing è una strada

I nuovi anziani, tra desiderio di imparare e libertà di scegliere

Un’indagine per descrivere i “nuovi anziani”: cosa è cambiato e sta cambiando negli atteggiamenti, nei comportamenti e nei bisogni? Si chiama “Non ho l’età” ed è promossa da Spi Cgil di Modena (che la presenterà oggi alla Festa nazionale Pd cittadina) e realizzata dallo studio MV. Premessa: questo lavoro di ricerca è stato svolto poco prima dell’esplosione della pandemia. La lettura dei risultati, dunque, non può prescindere da quanto successo. Cosa emerge? “Che non ci sono più gli anziani di una volta – scrive MV –. Dal punto di vista demografico sono tanti e nei prossimi anni cresceranno, in questa regione che fa concorrenza al longevo Giappone. Hanno buona salute e solide posizioni economiche alle quali fare affidamento. Non hanno lo sguardo rivolto al passato, ma piuttosto a un divenire ancora lungo e fortemente contrassegnato dalla libertà di agire. La vecchiaia è una dimensione lontana ed estranea, è una stagione alla quale non ci si prepara perché di ‘cattivo augurio’, se segnata dalla mancanza di autonomia, dal bisogno degli altri, dalla perdita della libertà. I nuovi anziani, che tali non si percepiscono, vogliono reinventare questa stagione della loro esistenza. Esiste una forbice fra età cronologica, età biologica ed età percepita o auto-attribuita. Ed è vero che se il dato anagrafico non può essere rimosso, c’è ampio spazio per la ridefinizione della dimensione relativa all’auto-attribuzione”.

Età anagrafica ed età sociale

Questo report si basa sulle indicazioni emerse da due diverse indagini qualitative. La prima raccoglie 7 interviste a testimoni significativi, uomini e donne che su questo tema hanno idee e riflessioni da proporre. La seconda sintetizza il lavoro di due focus group (per un totale di 700 persone). I partecipanti erano diversi per età: il primo accoglieva prevalentemente over 65, il secondo under 65. Hanno testimoniato opinioni differenti? “In parte. Il primo gruppo ha raccontato l’anzianità e la vecchiaia come una dimensione prevalentemente attribuibile ad altri, non a sé. Eppure, rispetto al gruppo cronologicamente più giovane, hanno depositato uno sguardo meno stereotipato, più ancorato alle reali condizioni di vita”. Quello che emerge è che l’età anagrafica non corrisponde più all’età “personale” e l’età sociale e culturale è tutta da definire. “Lo status sociale, gli atteggiamenti, la comunità nella quale si vive sono variabili che permettono opportunità diverse per delineare il proprio ruolo. Non ci sono esempi precedenti, ed è questo che manca a chi invecchia oggi: non poter contare su modelli del passato. È dunque questa una generazione di ‘adulti maggiori’, ‘senior’, ‘anziani’ che si misura con la propria età senza avere tracce precedenti e per questo ha bisogno di una nuova, originale definizione”.

Le tre stagioni dell’anzianità

Nel racconto delle interviste emergono tre momenti che lo studio MV riassume come: adolescenza dell’anzianità; anzianità; ritiro. “Queste tre stagioni fanno riferimento alla vita di ciascuno e per questo a un decorso individuale: in queste tre fasi ognuno entra soffermandosi per tempi diversi”. L’adolescenza dell’anzianità è una definizione in parte provocatoria, che raccoglie le caratteristiche dell’energia, del cambiamento fisico, di nuovi approcci mentali, di un misto tra paura e curiosità, malinconia e voglia di fare, scontro con altre generazioni, “appunto con caratteri simili a quelli dell’adolescenza. È il periodo che presenta la maggiore discontinuità rispetto al passato e la maggiore ricchezza di novità nei comportamenti e nei bisogni”.
L’anzianità invece è la stagione, “per dirla con le parole di un testimone, ‘quando si scambia meno e si hanno dei problemi di salute derivanti dall’età, quando si comincia a pensare che morirai’. È l’ingresso sulla scena del limite, della riorganizzazione biologica della singola esistenza. Entra nell’anzianità una persona della quale non ci si deve prendere cura, perché ha ancora autonomia”. Eppure si inseriscono elementi di maggiore fragilità, di dipendenza e di bisogno anche di fronte ad un’esistenza ancora potenzialmente attiva.
Il ritiro ha una duplice faccia. “Quella tradizionale, data dalla perdita dell’autonomia e dalla emersione di tutti gli aspetti di dipendenza e debolezza; una nuova, data consapevolezza e, almeno in parte, dalla scelta, di interrompere le interazioni e gli scambi”. Ci si divide tra condizione fisica e auto-percezione della persona, che avrebbe ancora desideri di fare e scambiare, ma il corpo non lo permette. E poi c’è l’aspetto della scelta: “Rappresenta una dimensione del tutto nuova nella quale agisce il desiderio di raccogliersi, ripensare a sé preparandosi alla morte. Anche in questo caso si presentano nuovi comportamenti e nuovi bisogni”.

Relazioni e formazione

Emerge da questa ricerca anche il bisogno di apprendere, di essere aggiornati, di avere conoscenze per districarsi nel mondo digitale senza essere un nativo digitale: questa, per il 54 per cento degli intervistati, è una delle condizioni essenziali per una buona anzianità. La formazione quindi anche nell’età della pensione, non solo durante la vita lavorativa. Maurizio Landini, segretario Cgil, pochi giorni fa alla festa nel suo intervento ha sostenuto che una scelta veramente rivoluzionaria sarebbe fissare nei contratti l'obbligo di formazione per 2 o 3 ore settimanali delle 40 di lavoro. Per gli anziani questo bisogno è al secondo posto dietro solo alla relazione con gli altri.
“La necessità di relazioni – spiega Sauro Serri della segreteria Spi Cgil di Modena – è ovviamente risultata al primo posto, anche perché la rilevazione è stata effettuata durante il lockdown e raccoglie nel sondaggio il 74 per cento delle scelte”. “L’impressione – aggiunge Serri – è che durante la fase 1 abbiano sofferto sia la fascia molto giovane, sia la fascia molto anziana. Senza relazioni, sena luoghi di scambio: un destino comune che, invece del conflitto generazionale, dovrebbe dare vita a un’alleanza”.

Cohousing e desiderio di restituire

Dall’indagine emerge anche la forte volontà di riordinare e restituire l’esperienza di vita, come elemento dell’invecchiamento attivo e come nuova frontiera dei servizi. “Restituire ciò che si è imparato è un’esigenza del singolo, ma anche un vantaggio per la collettività, ma ci vorrebbero luoghi, non meglio precisati dagli intervistati, dove restituire esperienza e conoscenza e sarebbe utile qualcuno che aiutasse a riordinare esperienze e pensieri al fine della restituzione alla collettività”. Su questo tema, raccoglie consensi il cohousing, “descritto come un’esperienza residenziale data dalla coesistenza di abitazioni private e spazi comuni che rendono possibile la custodia di un proprio spazio da abitare e la condivisione di servizi che permettono aiuto, sostegno e scambio. Può essere questa una nuova indicazione per le politiche di sviluppo urbano di una città che accoglie i senior e i loro desideri? Può avere anche il carattere della relazione intergenerazionale?”.

La non autosufficienza

L’indagine poi si addentra nel mondo della non autosufficienza, chiedendo ai modenesi su quali servizi e politiche è più utile puntare. Le risposte sono polarizzate su due opzioni: ricorso alla casa protetta per il 41 per cento (opzione privilegiata dagli uomini), potenziare i servizi domiciliari per il 49,8 per cento (opzione privilegiata dalle donne). Lo scarto minimo – la differenza tra le due opzioni è inferiore alla percentuale di chi non sa o non risponde – “sembra dire alla politica di tenere aperte le due opzioni per poter scegliere in relazione a specifiche e concrete condizioni. Ancora una volta l’approccio non è ideologico, di principio, non si tratta di stabilire a priori ciò che è giusto o sbagliato, ma occorre valutare e decidere nel merito in relazione alle condizioni della persona anziana, all’offerta di servizi, alle energie e risorse della famiglia”. Quasi il 90 per cento degli intervistati si dichiara d’accordo con l’ipotesi: “il futuro delle case protette è quello di diminuire progressivamente la dimensione, personalizzare i servizi, fino a diventare abitazioni simili a quelle private e con servizi condivisi come mensa, sanità, assistenza e socialità”.

Da Rita Levi-Montalcini a David Bowie

Quali sono gli anziani che vi piacciono? MV ha posto agli intervistati anche questa domanda. Molte risposte sono del tutto inattese. “Le prime due nominate sono segnate dalla bellezza, non solo estetica: una sorta di bellezza dell’intelligenza. Sono Liliana Segre e Rita Levi-Montalcini. Le altre icone citate si distanziano dalla visione apparentemente stereotipata dell’anziano saggio, introducendo un profilo del tutto originale incarnato da David Bowie oppure assolutamente ignaro dell’età come Ken Loach, come se la libertà artistica avesse qualche punto di contatto con la libertà dell’anzianità, entrambe con meno filtri e cose da perdere”. Piacciono anche Gino Strada e Bernie Sanders, Andrea Camilleri, Renzo Arbore e il sociologo Bauman perché “ha avuto il coraggio e la forza di innamorarsi nuovamente, a 80 anni, di una amica di lungo corso”. Ma gli anziani piacciono soprattutto per come amano, soprattutto nella loro condizione di nonni.

Ambra Notari

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)