Il direttore di San Vittore: “Il carcere utile è quello che aiuta le persone a crescere”

Dopo 27 anni nell'amministrazione penitenziaria, Giacinto Siciliano si racconta in “Di cuore e di coraggio” (Rizzoli), un libro che ripercorre la sua carriera dal carcere di Busto Arsizio a San Vittore, passando per Monza, Trani, Sulmona e Milano Opera

Il direttore di San Vittore: “Il carcere utile è quello che aiuta le persone a crescere”

Osare. Mettersi in discussione. Non nascondersi dietro le norme che ti dicono cosa fare e cosa non fare. Avere il coraggio di investire sulle persone, sapendo che il risultato può essere positivo o un fallimento. È in questo modo che, dal 1993, Giacinto Siciliano fa il suo lavoro. Un lavoro che prima di lui aveva fatto il padre, Vito, direttore di carcere a Bari, Lecce, Milano e Napoli. Un lavoro che lui era convinto di non voler fare: “Invece, andò diversamente. Forse perché questo lavoro lo avevo nel sangue e anche perché il destino s'impicciò per rimettermi sulla strada che era stata di nonno Giacinto (comandante degli agenti di custodia già ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, ndr) e di papà”, scrive Siciliano nel libro “Di cuore e di coraggio” (Rizzoli).

Entrato nell'amministrazione penitenziaria come vicedirettore del carcere di Monza, Siciliano è poi diventato direttore a Busto Arsizio, Trani, Sulmona e Milano Opera, dove è rimasto 10 anni. Dal 2017 dirige San Vittore, lo storico carcere in centro a Milano.

A Opera, il carcere di massima sicurezza con un reparto dedicato al regime del 41 bis, Siciliano ha portato un “Rinascimento”, come è stato definito, trasformandolo in “una comunità dove c'erano regole da rispettare e da far rispettare”. Oggi a San Vittore, casa circondariale in cui i detenuti sono in gran parte condannati per reati di lieve entità e restano per periodi brevi, sta sperimentando percorsi di responsabilità sui temi della bellezza, della cultura e dell'ordine.

Cosa vuol dire avere cuore e coraggio nel fare questo mestiere?
Come tutti i lavori anche questo lo si può fare in modo formale, senza rischiare nulla, oppure ci si può mettere in discussione, avere il coraggio di provare a fare cose diverse. Il cuore è la passione che metti nel tuo lavoro ma anche il tentativo di vedere se la persona che hai davanti, che sia collega o detenuto, ha qualcosa di positivo su cui lavorare per valorizzarla. Il cuore serve per agganciare le persone, gestirle e instaurare relazioni che, nel rispetto dei ruoli e della separazione, possono fare la differenza e portarle ad affidarsi a te o a quello che rappresenti.

Com'è cambiato il carcere in Italia da quando lei ha iniziato a fare questo lavoro?
Si è evoluto e, nel tempo, ha visto ridurre alcune conflittualità. In linea con le disposizioni dell'ordinamento, si è scelto di investire sulle possibilità di cambiamento delle persone, di valorizzare lo spazio e il tempo in carcere, coinvolgendo i detenuti in attività che possano dare loro stimoli su cui lavorare. Una persona chiusa in cella dalla mattina alla sera ha tempo per  riflettere, ma se nessuno ci lavora quella riflessione sarà fine a se stessa. Fare attività o progetti non significa non riflettere, anzi un po' tutte le attività di cui parlo nel libro hanno la finalità di costituire elementi di confronto e riflessione mai banali, mai di intrattenimento, ma di stimolo per le persone a confrontarsi tra loro e con gli operatori.

Quando si parla di carcere in tanti invocano un senso di giustizia legato a pene severe, lunghe, parlano di sicurezza, di rinchiudere le persone e buttare via la chiave. Come si può far comprendere l'importanza dei percorsi di cambiamento dei detenuti, anche per la sicurezza della società?
Il punto di partenza è che al reato si deve rispondere. E la risposta deve essere significativa e adeguata a ciò che la persona ha fatto. Il lavoro parte da lì, da cosa ha fatto, dal perché, dalle conseguenze, dal fatto che si renda conto di quali siano queste conseguenze e da cosa si può fare per riparare il danno. E cosa fare? Se tengo una persona in carcere senza lavorarci, quella non cambierà, anzi potrebbe incattivirsi. In questo modo non solo non lavoro per ridurre il rischio di recidiva ma forse lo sto peggiorando. Se in carcere si lavora bene, qualche possibilità che le persone non commettano altri reati c'è e attraverso le testimonianze di operatori, detenuti e anche vittime lo si può far capire alle persone. Bisogna provare a investire su questo, altrimenti la recidiva è automatica: primo perché se la persona non cambia, una volta fuori avrà più difficoltà di quante ne aveva prima e continuerà a sbagliare e poi, perché il reato non è un problema del carcere. Il reato sta prima del carcere e noi assegniamo a questo la pretesa che risolva le problematiche di un contesto sociale, familiare, economico che, in qualche modo, non ha funzionato. Però per quanto il carcere possa fare un ottimo lavoro, quando quella persona esce e torna nel suo contesto se non si è costruito altro, è inevitabile la recidiva.

Nel libro ha scritto che nel suo lavoro deve andare oltre l'apparenza e vedere il buono in ogni persona. Come si può lavorare con detenuti che hanno commesso crimini gravi, dare una seconda possibilità anche ai più pericolosi?
Il nostro obiettivo è tendere alla rieducazione, una parola difficile che può significare tutto e niente. Non sto dicendo che il carcere migliora tutti, cambia tutti e fa i miracoli. La questione di fondo è lavorare con le persone, e non sto parlando del 41 bis che è un mondo a parte in cui non ci sono attività. Però a un certo punto le cose possono cambiare, si possono ammorbidire, le persone escono da determinati regimi, il tempo passa, si può lavorare. E si lavora non per dare benefici, se questi ci saranno sarà perché la norma lo prevede, perché le équipe interne e la Magistratura hanno fatto una valutazione. Il concetto è che non bisogna precludersi la possibilità che una persona possa cambiare, se si spera che questa cambi. Nel libro faccio qualche esempio positivo, ma ce ne sono tanti con cui non siamo riusciti a fare nulla, il carcere non è un mondo dove le cose funzionano sempre.

A Opera, ha cambiato il modo di concepire il carcere, come ci è riuscito?
Avevamo un'indicazione in tal senso, un dato non da poco. E poi lavorando, tutti insieme. Il modo di intendere il carcere è un problema di cultura, di cultura del posto, di cultura delle persone che lo rappresentano e di quelle che lo vivono, per cui abbiamo lavorato con operatori, collaboratori, detenuti, sulla responsabilità e sul provare a vivere in modo diverso gli spazi, nel rispetto di regole precise. L'obiettivo, nel libro ne parlo, non deve essere far rispettare le regole perché è un obbligo ma fare in modo che la persona scelga il rispetto delle regole perché capisce che può avere una restituzione in termini positivi di qualità della vita, dignità, orgoglio; perché capisce che se decide di rispettarle, la vita è diversa. È questa scelta a rendere la persona autonoma. L'obiettivo è lavorare perché, una volta fuori dal carcere, quella persona non abbia più bisogno di qualcuno che gli dice cosa fare e cosa non fare, perché ha capito quali sono le regole della convivenza e del rispetto degli altri.

È questo che intende quando parla di carcere utile?
Il carcere utile è quello che aiuta le persone a crescere, svilupparsi, a fare scelte positive. Se questo non succede, il carcere è sempre carcere e avrà avuto l'utilità di tenere le persone dentro e non fuori, ma non è servito a prevenire la recidiva di quelle persone rispetto al futuro. Tolti i pochi ergastolani realmente ostativi e al di là di quelle che sono le decisioni della Corte Costituzionale, la maggior parte dei detenuti a un certo punto esce. Il senso è: o si utilizza il tempo e il luogo del carcere come un posto di cambiamento oppure è inutile, è solo un parcheggio temporaneo da cui la persona uscirà più arrabbiata di prima e potrà dire che è colpa degli altri se fa quello che fa, mentre è una sua scelta, legata al contesto.

A Opera ha organizzato gli Stati generali sul carcere coinvolgendo operatori, detenuti e risorse del territorio. Tra i temi discussi c'era anche l'ergastolo ostativo. Con le sentenze della Corte europea e della Corte costituzionale del 2019, qualcosa è cambiato. Cosa ne pensa?
Si è affermato un principio, quello secondo cui la pena, per avere un senso, deve avere una speranza, una possibilità di uscita, come prevede la Costituzione. La concreta attuazione della sentenza della Corte costituzionale è cosa diversa, complicata. Ma non dice fuori tutti come qualcuno ha sostenuto, dice una cosa diversa. Il concetto è sempre quello: se vuoi provare a fare un tentativo di cambiamento, devi fare in modo che il cambiamento sia riconosciuto. Ma riconoscere il cambiamento vuol dire assumersi delle responsabilità. E questo richiede coraggio, il coraggio di dire no o di dire sì per ciò che è in nostro potere, perché ricordiamoci che noi diamo un parere, la decisione spetta sempre alla Magistratura.

Nel libro si parla anche di suicidi in carcere. Crede che si faccia abbastanza per prevenirli?
Direi di sì. Si sta facendo un lavoro importante, un po' dappertutto. Poi è vero che il carcere non è il posto migliore da questo punto di vista e anche se noi lavoriamo tanto, gli spazi sono quelli che sono, mentre lavorare con persone in stato di depressione o con gravi situazioni che possono portare a gesti particolari, richiede luoghi diversi e altre professionalità. In carcere si lavora tanto e forse siamo anche diventati bravini, ma fare questo tipo di prevenzione non è il nostro mestiere. È difficile fuori, a maggior ragione lo è in un contesto dove il rischio è di trasformare la prevenzione in un rigore finalizzato a che non succeda il fatto. Con il risultato che, per evitare che la persona faccia qualcosa si incrementa la sicurezza ma non la si aiuta e forse si finisce per creare situazioni peggiori, perché più il controllo è opprimente più si va in direzione opposta al superamento del problema. Questo vale anche per gli operatori. Il carcere è un posto dove non è facile vivere e lavorare, dove il contesto in cui ti trovi a operare porta sempre fuori problemi. Dietro al suicidio nel 99% dei casi c'è qualcosa che non riguarda il carcere o quello che vi succede, però sicuramente quel contesto non aiuta. Non aiuta noi e non aiuta i detenuti.

Laura Pasotti

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)